Il film su Amy Winehouse, la cantante sfortunata con sé stessa
Raggiungere il successo con il lutto al braccio per un amore non corrisposto e spegnersi a poco a poco perché forse di tutto il resto non ci importa più nulla. Sembra questa, in sostanza, la descrizione quasi perfetta della parabola prima esistenziale e poi professionale del talento puro e naturale, senza l’ausilio del famigerato autotune, di Amy Winehouse. Cantante britannica scomparsa a Londra il 23 luglio del 2011 a soli 27 anni che, purtroppo, è andata ad aumentare, tragicamente, il numero del gruppo di giovani leve della musica che sono scomparse proprio a quell’età e per i motivi più disparati: il maledetto ‘Club 27’.
Un gruppo ristretto di giovani talenti che hanno lasciato questo mondo troppo presto. Si pensi a Robert Johnson, nel 1938; a Brian Jones nel 1969; a Janis Joplin; a Jimi Hendrix. Per poi fare un bel salto temporale negli anni ‘90, 5 aprile del 1994 per l’esattezza, in cui avvenne il suicidio del leader dei Nirvana, Kurt Cobain, e, a questo punto, arriviamo a lei: la protagonista del suo biopic.
Di ‘Back to Black’ ne abbiamo parlato, semmai accennato, proprio questo lunedì, facendo aprire la settimana, con l’istituzionale appuntamento de ‘La canzone del lunedì’, alla canzone ‘Rehab’. Primo singolo che apre questo album del 2006 e che, allo stesso tempo, come specificato più volte in questi giorni, titolo anche del biopic diretto da Sam Taylor-Johnson ed interpretato dall’attrice britannica Marisa Abela nel ruolo della sfortunata stella della musica.
Sfortunata, come spesso succede in questi casi, per aver ricevuto in dono una voce divina ma un carattere, una personalità fragile; forse, Amy, si era solamente convinta di non essere amata per ciò che fosse naturalmente, ma solo per ciò che rappresentava per il resto del mondo; per quello che era diventata in vita. Ovviamente la nostra è solamente un’ipotesi.
Alle volte, però, andare indagare sembrerebbe non tanto un’operazione di mera retorica e controproducente fruita solo per parlare di colei che non è solo vista come una persona. No, semmai può essere utile per scoprire alcuni lati, anfratti della mente umana, troppo labili per accettare determinate realtà; ovvero la fragilità di stella della musica.
Amy Jade Winehouse nella sua vita non era fragile, ma fragilissima; il suo talento? Non era grande ma grandissimo. Per molti, la sua prematura scomparsa, sarà stato sicuramente considerato come il classico effetto della pressione non retta. Alcool e droga, droga e alcool in fondo è sempre una miscela esplosiva che è sempre presente come il maggiordomo colpevole nelle storie gialle.
Invece, per certi versi, non è così. questa volta la dinamica che ha portato all’inevitabile disgrazia è stata diversa. Ci sovviene un verso di una famosa canzone di Adriano Celentano, ‘Spettabile Signore’ del 1980, in cui intona il verso: Morire d’amore sono solo parole da pellicola, eppure Spettabile Signore c’è ancora chi d’amore ci muore’. Ed è proprio questo che ci sembra dire anche il biopic, dedicato alla cantante, diretto Sam Taylor-Johnson. Back to black, questo il titolo è che un fortissimo e chiaro richiamo a quell’album uscito nel 2006.
Non un disco, ma quel disco che lanciò nell’olimpo dei grandi la giovane cantante dalla voce non comune. Un timbro vocale di altri tempi e che forse, semmai fosse sopravvissuta, avrebbe tenuto di certo testa alle più veterane Aretha Franklin e Whitney Houston. Due cantanti non proprio di poco conto.
Lo script del film, di Matt Greehalgh, mette in luce senza troppi fronzoli le dinamiche che hanno portato alla mera autodistruzione della nuova stella della musica soul e blues. Eppure, Amy nasceva come cantante jazz; il suo intento era quello di voler far ascoltare la sua voce per un semplice motivo: quello di far trascorrere cinque minuti alle persone facendole dimenticare dei suoi guai, dimenticandosi dei suoi.
Quelli che aveva dentro di sé, quei demoni che non è mai riuscita a controllare e a dominare, permettendo di essere dominata. In fondo, a tutti ci è capitato un amore sbagliato o un amore non corrisposto e quanti di noi, poi, siamo riusciti ad andare avanti.
Per lei, invece, non è stato così: doveva sentire i testi che scriveva e per fare ciò doveva attendere che le cose le succedevano. Se da un lato il suo animo sensibile le aveva donato questa capacità, dall’altro l’aveva condannata ad un’esistenza infelice finita davvero troppo presto.
È anche vero che quando si compiono tali operazioni su artisti comunque sfortunati appare naturale ‘santificarli’ in tutto e per tutto. Il film della Taylor Johnson ci permette anche di vedere il suo lato oscuro, in un carattere fin troppo ribelle e non perché avesse mania di grandezza, al contrario.
Cantava perché le piaceva cantare. Non lo faceva per i soldi, non lo faceva per la gloria che, meritatamente, stava già raccogliendo a partire dal 2006. Nessuno, però, si stava rendendo effettivamente conto del suo dramma personale, delle sue canzoni e dei testi che in modo particolare contenevano. Soprattutto proprio quel ‘Back to Black’, letteralmente tornare all’oscurità, il quale era composto da ben dieci canzoni su dieci tutte dedicate all’amore della sua vita. A quel Blake che le aveva spezzato il cuore.
Abbiamo detto che nessuno sembrava accorgersene di tutto questo, della sua autodistruzione invece non è proprio così. Non abbiamo sbagliato ad affermare ciò, comunque, perché in sostanza quasi un lasciar fare anche quando non era il caso. Vi ricordate della canzone di ‘Rehab’? singolo con il quale abbiamo aperto la settimana? Affermiamo ciò e per un semplice motivo: grazie all’interpretazione di Marisa Abela, attrice che è nata tredici anni più tardi alla vera Amy, vengono poste in risalto una ribellione che in verità fungeva da scudo ad una evidente debolezza di personalità.
Ciò non toglie che per molti il colpevole è quello stesso Blake che in Inghilterra, per non dire proprio a Londra e nella zona di Camden, lo considerano come il vero assassino della cantante, seppur a livello morale. Abela ce la mostra Amy, la fa rivivere in tutta la dolcezza, in tutta la sua debolezza che diventa grandezza quando ci sono le scene di canto. La fa tornare indietro, facendoci quasi chiedere del perché
La musica, appunto, è presente e non può essere altrimenti per un biopic dedicato ad una cantante. Ci sono quasi tutti brani che Amy scrisse ed incise in quel suo periodo e che stiamo condividendo da YouTube in questa specie di recensione e retrospettiva su di lei. Un periodo, quello, che doveva e poteva essere magico; invece, si tramutò in un vero inferno. È pur vero che alla fine tentò la risalita, che tentò di riprendere in mano la sua vita e forse cercare nuove strade per ispirare la sua musica e quindi la sua voce.
A questo punto la classica domanda ‘poteva essere salvata?’ Vale ancora? Certo che sì. Di fatto, però, la risposta muta prospettiva; cambia radicalmente, come abbiamo specificato in via indiretta in precedenza, lo scenario. Dal film mostra come lo stesso Blake, impersonato da Jack O’Connell, la introduce verso la strada della droga, rovinandola.
Nel film viene mostrato anche un altro tallone d’Achille della cantante: la perdita della nonna che la stessa la sentiva come una seconda madre. Dunque, Amy Winehouse sembrava vivere senza punti riferimento, seppur ne aveva: suo padre, il suo manager ma per certi versi le mancava quello più importante: sé stessa ed è normale che al primo scossone negativo la caduta, dopo la lenta e dura ripresa, sia stata non tanto rovinosa, quanto tragica.
Il biopic, a sua volta, oltre ad essere costituito su aneddoti e particolari sulla vita di Amy è basato, in tutto e per tutto, sui testi delle canzoni. Una scelta condivisibile o meno ma che potrebbe aver, diciamo, enfatizzato un po’ troppo, quanto romanzato quel tanto che basta per evitare che si parlasse di lei in negativo.
Con questo non vogliamo assolutamente affermare che l’opera cinematografica non sia attinente alla realtà, sarebbe un gravissimo errore da parte nostra; ma un piccolo possibilità che non si è detto tutto questo sì. D’altronde è vero che Blake la portò nel brutto giro della droga, come è anche vero che ad ucciderla, però, fu un quantitativo eccessivo di alcool in poche ore dopo non assumeva più bevande di quel genere da tempo. Sta di fatto, comunque, che in quel 23 luglio del 2011 la musica perse un immenso talento, ma lei si era già persa da molto a causa della sua natura autodistruttiva incontrollabile.