Rosa Parks e il suo leggendario rifiuto nell’autobus numero 2857
Il numero 2857 vi dice qualcosa? Pochissimo, anzi quasi nulla e non avete tutti i torti, cari lettori. Molto spesso quando si riportano degli eventi storici, i fatti vengono raccontati, involontariamente, sempre in maniera generale. Poi, solo qualche tempo più tardi, si cerca di approfondire con i dettagli che integrano ancor di più ciò che è successo; specie quando si mostra l’intenzione di scoprire qualcosa di più riguardo a quello che sembrava, solo ed essenzialmente, un anonimo caso di cronaca che, in pochissime ore, divenne una vera e propria bomba mediatica.
Il numero con il quale abbiamo iniziato è legato indissolubilmente ad una data nella storia e ad un mezzo di trasporto. Forse, adesso, vi inizia a dire qualcosa. Forse vi viene alla mente una sconosciuta donnina, minuta, che esce tardi dal lavoro e l’unica cosa a cui sta pensando è quella di rientrare a casa e di riposarsi. Da vivere svolgeva il lavoro di sarta e per tornare a casa doveva prendere l’autobus.
Eppure, sempre la donna, non aveva la libertà di sedersi dove voleva e non perché a quell’ora i posti si presentavano già tutti occupati, no. Nella sua zona, nella sua città, nel suo Stato e Nazione di appartenenza, seppur non in tutta la nazione, vigeva ancora una legge che non concedeva alcune libertà: proprio come quella di sedersi su un autobus.
La sua unica colpa? Quella di essere erede di coloro che giunsero negli Stati Uniti d’America come schiavi, importati dall’Africa. La sua unica colpa era anche quella di essere nera. In quell’autobus 2857, come in altri luoghi pubblici del sud degli Stati Uniti d’America, vigeva la legge del cosiddetto separati ma eguali, meglio intesa come segregazione razziale.
Ci si poteva sedere, ma solo in fondo; ed erano posti solamente per i neri. Davanti era tutto riservato ai bianchi, mentre in mezzo? In mezzo c’era la possibilità di posti misti, ma semmai saliva un bianco, il nero si sarebbe dovuto alzare per la ‘cosiddetta’ precedenza.
Quella sera successe proprio questo. Dopo il lavoro, dopo una giornata infinita, la sconosciuta Rosa Parks, questo il suo nome, quando vide un bianco avvicinarsi a lei, dopo che si era seduta da un bel po’ nei posti di mezzo, visto che quelli in fondo erano tutti occupati, disse semplicemente ‘no’ a non volersi alzare alla richiesta, per non dire ordine, dell’uomo appena salito sull’autobus.
Tutti quanti noi abbiamo immaginato, nel nostro piccolo, quella scena. Chissà quante volte lei stessa aveva immaginato di reagire in quella maniera. Forse, in alcune volte, aveva persino fantasticato di farlo con più veemenza. Non quella volta. Era calma, determinata e inflessibile. Sapeva di venir arrestata, sapeva che sarebbe stata addirittura processata e che forse avrebbe atteso l’udienza direttamente in carcere. Invece no.
Qualcuno le pagò la cauzione. Alcuni dicono un avvocato bianco, altri affermano che venne organizzata una colletta da parte della stessa comunità nera. A raccogliere il denaro necessario, sempre secondo la leggenda, fu un pastore protestante che colse l’occasione per iniziare a guidare una battaglia in favore dei diritti civili. Anche questo particolare vi dice altrettanto qualcosa, vero? Quel giovane uomo di chiesa si chiamava Martin Luther King.
È vero, abbiamo usato il termine leggenda. Quando è così, significa che qualche fatto o meglio qualche dettaglio non rappresenti propriamente la realtà. In merito proprio al fatto che Rosa Parks si vide pagare la cauzione potrebbe essere andata così: una volta arrestata, la voce, su quanto è successo, a quanto pare girò in fretta; tenendo presente che non c’erano i social come oggi, ma il passaparola.
La voce, dunque, giunse a Martin Luther King che organizzò la colletta in favore di Rosa Parks, una volta raccolti i soldi si affidarono ad un avvocato bianco per farla uscire.
In precedenza, abbiamo detto che sapeva di essere arrestata. Ciò che forse non si attendeva fu la reazione della gente, non solo intesa come comunità nera, ma anche del resto della nazione che non rimase più impassibile. I 381 giorni di boicottaggio degli autobus fu un chiaro segnale che qualcosa stava realmente cambiato.
La protesta terminò quando la corte suprema, il 13 novembre del 1956, diede ragione alla comunità nera cancellando, per sempre, la segregazione razziale nei luoghi pubblici negli Stati del sud.
Il suo gesto ribelle, non violento, fermo e determinato rappresentò il via a quella rivoluzione dopo secoli di soprusi. Il boicottaggio contro la società degli autobus venne fatto in modalità pacifica. Soprattutto quel gesto significava la rivendicazione dei propri diritti. Nessun accenno di violenza, nemmeno una parola fuori posto. Solo una disobbedienza civile già applicata dal Mahatma Gandhi per liberare l’India dalla presenza dell’impero britannico sul territorio.
Un gesto che ancora oggi deve essere ricordato, tenuto presente e non strumentalizzato; celebrato sempre come monito, come fulgido esempio di come, contro le ingiustizie, si può e bisogna reagire. Subito dopo i fatti, subito dopo quel rifiuto, si disse che Rosa Parks non si volle alzare da quel sedile perché era stanca. Qualche anno più tardi a chiarire fu proprio lei in persona. Affermò che si, era stanca, ma non per il lavoro; era stanca di subire.
Rosa Parks morì il 24 ottobre del 2005. Semmai avesse avuto la fortuna di vivere altri tre anni avrebbe potuto vedere il primo afroamericano entrare alla Casa Bianca da Presidente, ovvero Barack Obama. Ma sappiamo se quel giorno finalmente era arrivato nella storia di questo paese, fu proprio grazie a quel rifiuto fatto con delicatezza, classe e gentilezza. Perché non sempre per rivendicare i diritti c’è bisogno della violenza. Ma questo lo abbiamo tutti dimenticato, ancora oggi.