22 novembre 1963: Il giorno che cambiò gli Stati Uniti d’America e la storia
Dealey Plaza, città di Dallas, Stato del Texas. Il 35° Presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, sta per compiere l’ultimo step di quel giro per le strade della città texana. Sono le ore 12.30 antimeridiane e tutto sarebbe finito al Trade Mark dove avrebbe pronunciato un discorso. In quel preciso istante la Lincoln presidenziale aveva da poco svoltato sulla Elm Street, per poi scomparire superando il cavalcavia. Invece qualcosa cambiò per sempre il corso di quella giornata e della storia.
I sorrisi, i saluti, la spensieratezza, l’allegria anche di quei momenti vennero spazzati via da tre colpi di fucile. Diciamo tre perché vogliamo rimanere fedeli alla versione ufficiale della Commissione Warren, ma ci teniamo a precisare che anche in questo c’è sempre più di una zona d’ombra.
A sparare quei tre colpi, sempre per la versione ufficiale, fu Lee Harvey Oswald, un americano per la passione del comunismo e per Fidel Castro. Lui stesso, una volta arrestato qualche minuto più tardi, si dichiarerà innocente e capro espiatorio proprio perché, in passato, era andato a vivere in Unione Sovietica per un breve periodo di tempo.
Tutto normale, direte voi. In fondo è stato arrestato ed è normale che si dichiari innocente. Invece no. Accade qualcosa due giorni più tardi: il 24 novembre del 1963. Cosa succede? Oswald viene ucciso davanti alle telecamere e quindi in diretta nazionale da un tale, gestore di un night club, di nome Jacob Rubinstein, meglio conosciuto nell’ambiente come Jack Ruby. Da quel momento in poi si fa strada l’idea del complotto e non solo per questo motivo.
Partendo dal presupposto che dopo la sparatoria in momenti divennero confusi e convulsi, il Presidente Kennedy venne portato velocemente al primo ospedale più vicino alla Dealey Plaza: il Parkland Hospital. I dottori fecero il possibile per cercare di salvargli la vita, ma le ferite erano troppo mortali per sopravvivere. Ferite, appunto: quelle alla gola e quella alla testa.
Su entrambe si è aperto un dibattito che dura ancora oggi e per due motivi. Il primo è relativo alla cosiddetta pallottola magica, secondo cui avrebbe attraversato la schiena del Presidente e che è uscita dalla gola dello stesso. In primo momento quest’ultimo venne identificato come foro di entrata, poi inspiegabilmente foro d’uscita.
Per quanto riguarda la seconda ferita, quella alla testa, quella mortale, potremmo realizzare uno speciale tutto suo, con articoli su articoli senza neanche, da parte nostra, giungere ad una soluzione convincente o quantomeno che accontenti tutti. Scriviamo così, perché a distanza di sessanta lunghi anni non si è ancora capito quanti hanno effettivamente premuto il grilletto a Dallas e in questo caso, come sempre, andiamo con ordine.
Abbiamo detto che i colpi furono tre: uno alla gola, diciamo così, e l’altro alla testa. E il terzo? Il terzo, così come lo abbiamo indicato, è in realtà andato a vuoto. Quindi, il secondo colpo è quello che colpì Kennedy trapassandogli la gola e il terzo, nel vero e proprio ordine, è quello che, purtroppo, gli fece saltare la testa. Ma chi ha sparato? È stato sempre Oswald?
Ed è qui che si apre il dibattito e che non si è mai e poi mai chiuso definitivamente. La versione ufficiale vuole che Lee Harvey Oswald sparò dal sesto piano del deposito di libri della Texas School con un fucile di produzione italiana, un Mannlicher Carcano. Un’arma con funzionamento a retrocarica che, secondo molti, non gli avrebbe permesso di sparare in pochi secondi. Punto uno.
Il punto due è rappresentato dal fatto che tutta la scena, tutto l’andamento dell’attentato venne ripreso da un sarto di nome Abraham Zapruder, il quale stava provando per la prima volta una videocamera appena acquistata da poco. Durante la registrazione dei fotogrammi si vede, chiaramente, la testa del Presidente Kennedy saltare in aria.
Da qui si sono innescate polemiche su polemiche nel vano tentativo di capire da dove, quel proiettile, fosse realmente partito. La versione ufficiale sostiene che il colpo è partito dal deposito di libri, altri ancora dalla Grossy Knoll. Una collinetta erbosa alla destra della Lincoln presidenziale. Una posizione altrettanto perfetta per colpire qualcuno.
Da qui, ancora, altro dibattito sul movimento, lampante come il sole, che compie il Presidente compie una volta esser stato preso sulla tempia destra. Vi risparmiamo la descrizione di quegli attimi, ma il tutto lo lasciamo alle immagini amatoriali che sono entrate nella storia.
Ma non finisce qui. Gli attimi successivi sia all’attentato e sia all’invano tentativo di salvargli la vita, sono oltremodo misterioso. Quando fu il momento, come prassi, di effettuare l’autopsia su John Kennedy l’anamopatologo chiamati in causa rimasero sconvolti nel constatare che nella calotta cranica non c’era più il cervello. Qualcuno lo aveva fatto sparire. Perché?
Perché, al Parkland, il corpo del Presidente non venne lasciato all’ospedale per compiere le relative analisi, richiamando, da parte degli uomini della scorta, una giurisdizione federale che di fatto, a quei tempi, non sussisteva ancora? Per la precisione, fino al 22 novembre del 1963 l’uccisione di un Presidente non era considerato, ancora, reato federale; lo divenne solo successivamente. Che quelli del Texas e quelli dello staff di Kennedy non si fidassero l’uno verso l’altro era evidente. Si presume, però, che il cervello del Presidente venne fatto sparire durante il giuramento di Johnson, durante il ritorno a Washington.
La commissione Warren, istituita da Lyndon Johson, il 29 novembre del 1963 non chiarì mai tutti questi particolari, compreso quello relativo al numero degli spari. Ufficialmente furono tre, per alcuni testimoni quattro o addirittura sei. Negli anni ’80 si pensò che un poliziotto in motocicletta, lasciando sbadatamente, la ricetrasmittente accesa, registrò tutta la sequenza degli spari. Qualche decennio più tardi si scoprì che la posizione in cui si trovava l’agente nella Dealey Plaza era troppo lontana da poter compiere, seppur in maniera involontaria, questa operazione.
La verità è che si potrebbe continuare all’infinito nel parlare, analizzare e ricordare questo evento. Certo, oggi gli abbiamo dedicato un articolo suddiviso in tre parti ma sappiamo che non basta e neanche quelli che pubblicheremo per tutto il resto della settimana, perché condensare sessanta lunghi anni di misteri non è mai e poi mai semplice.