La Metropolitana napoletana della linea storica è stata oggetto, alcuni decenni fa, di un intervento creativo artistico di cui può essere utile rinverdire la memoria
Furono nove gli artisti che parteciparono al progetto di ‘Arte & Metrò’ che trovò piena realizzazione nel contesto del Corridoio di accesso alle banchine della stazione ‘Piazza Amedeo’ della linea storica della Metropolitana FS di Napoli, quella che, oggi, viene definita la ‘Linea 2’ del metrò partenopeo.
Una bella pubblicazione del dicembre 1992 valeva a definire il quadro contestuale di tutta l’operazione; ed era firmata da Eduardo Alamaro, Luciano Scateni e dal Direttore Compartimentale FS del tempo. Le ragioni salienti di questo importante intervento artistico eseguito nel contesto della linea storica della Metropolitana di Napoli possono brevemente riassumersi proprio nella parola del Direttore Compartimentale che letteralmente diceva: “Napoli è la protagonista indiscussa di queste opere: la sua solarità ma anche la sua complessità traspaiono da ogni segno, da ogni colpo di spatola e di pennello. ‘Arte & Metrò’ è la sintesi di un accostamento che ci piace fare ma è, soprattutto, un augurio che la stazione di Piazza Amedeo non sia un caso isolato, ma l’avvio di un rapporto nuovo e diverso tra le Ferrovie Italiane, i suoi luoghi fisici e l’intellighentia e la cultura cittadina: affinché le stazioni possano diventare punti d’incontro e di ritrovo più che di metafora del distacco”.
Gli artisti chiamati all’appello erano effettivamente alcuni dei più bei nomi dell’arte contemporanea napoletana, erano, come recitava, in copertina, il sottotitolo della pubblicazione di ‘Arte & Metrò’, “Nove particolari di un disegno di progresso”, nove artisti che testimoniavano in modo imprimente la ricerca stessa di un ‘senso’ nella frenesia della dimensione disfratta della tumultuosità coinvolgente dei ritmi della città.
I nove artisti le cui opere occupavano i muri del lungo Corridoio di accesso alle banchine della Stazione di Piazza Amedeo erano: Domenico Carrera, Cesare Giardini Coccoz, Claudio Infante, Mariano Mastrolonardo, Adele Monaco, Antonio Niola, Alfonso Palma, Giovanna Romualdi, Sergio Spataro.
S. Spataro, Napoli 1799
Le opere erano – già, ‘erano’, poiché, ora, non ci sono più (almeno in loco) – erano, dicevamo, particolarmente belle. Erano, innanzitutto, grandissime; con una superficie dipinta, ciascuna, di circa 10 metri quadrati e costituivano il punto di confluenza di linguaggi e modalità d’intervento che si diversificavano nel lessico, ma che proponevano un comune disegno di intendimento contenutistico: quello, in particolare, di rispondere all’istanza di costruire una immagine della città in movimento, di una città che non vuole, comunque, disperdere i propri spessori ancestrali, sacrificandone le istanze ad una friabile contemporaneità.
In tal modo, i lavori di ciascun artista finivano col divenire anche significanza espressiva – in qualche caso, possiamo dire, addirittura ‘espressionistica’ – di una pregnanza logica che, con umiltà di accenti, sapeva, però, non rinunciare a farsi ragione espistemologica e tentativo di collocazione della sfera estetica nella quotidianità sperimentabile e sofferta.
Luciano Scateni chiudeva il proprio intervento nella pubblicazione di ‘Arte & Metrò’ invocando una sorta di patrocinio morale di Walter Benjamin sulla consistenza di questo apparentemente improbabile museo, avendo provveduto, intanto, ad investigare l’opera di ciascun artista nelle proprietà distintive della propria scansione stilistica e della propria sensibilità.
E, così, anche Alamaro, con graffiante ironia, cercava di comprendere e di far comprendere la qualità dell’iniziativa, di cui vedeva tutta la carica di precarietà che le si addossava, una precarietà la cui più incombente minaccia egli paventava nell’intervento di sfregio che si sarebbe potuto abbattere su quelle opere per effetto di gesti vandalici o anche di ‘semplici’ imbrattamenti, più o meno casuali con addossabile colpa ai soliti ‘scugnizzi’.
Adele Monaco, Luna Flegrea
E dettava, quindi, Alamaro, delle parole che si sarebbero poi verificate sinistramente profetiche, quando ammoniva che quelle opere, un giorno, sia pur ridotte a brandelli, sarebbero dovute essere tenute in gran conto, anche in quello stato di più acuta aggressione, come testimonianza e come segno ben preciso dei tempi.
Si interrogava Alamaro: “Quanto resisteranno … noi speriamo che incontrino il gusto del pubblico e restino nei secoli dei secoli … o, infine, dei giorni dei giorni; e se così non fosse ed andranno in frantumi non si rassegnino i dirigenti delle Ferrovie: continuate … Allora, dirigenti delle Ferrovie dell’Arte, siete avvisati: se le opere andranno malauguratamente distrutte non buttate via i frammenti; conservateli, esponeteli nelle Gallerie d’Arte, aprite un apposito museo delle Ferrovie: lì, nella distruzione, è il tratto metropolitano, il destino dell’arte d’oggi”.
C. Infante, Luce, Movimento e Forma
Alamaro sbagliava, però: immaginava che sarebbero stati degli “scugnizzi” a distruggere queste opere e, invece, no, queste opere, di punto in bianco, sono semplicemente sparite, la loro ‘distruzione’ paventata da Alamaro sarebbe stata la semplice loro scomparsa, di punto in bianco, disancorate dai loro importanti sostegni di fissaggio alle pareti del Corridoio d’accesso alle banchine del Metrò e finite praticamente nel nulla, nel nulla almeno, di ciò che ci è dato conoscere e nel nulla che è quanto ci riferisce lo stesso Sergio Spataro che di quell’impresa fu non soltanto ‘semplice’ artista, ma organizzatore, come testimonia la stessa indicazione del suo nome nella pubblicazione su cui noi qui discutiamo.
Ed, allora, riprendiamoci almeno alle immagini: non solo a quelle che conserviamo nella nostra memoria, ma anche a quelle, a stampa, delle pagine di ‘Arte & Metrò’. E rivisitiamo, quindi, i tratti espressionistici della Romualdi di Coccoz e di Spataro, quelli a proprio modo lirici di Alfonso Palma, quelli di sensibilità neo-nucleare di Antonio Niola, quelli aerei e trasvolanti delle campiture decise di Adele Monaco, in dialogo con le immagini non meno trasvolanti ed aeree di Mastrolonardo, e tonalmente astrattive di Infante, specchiate nella bidimensionalità umbratile di una figurazione larvale di cui dà prova Domenico Carrera.
A. Niola, Luccichio della città
Ma ritorniamo agli interrogativi di Alamaro e rimpiangiamo la sparizione di queste splendide creazioni artistiche dalla pubblica fruizione, auspicando che questo nostro intervento possa valere a lanciare un cono di luce non soltanto su un momento significativo della disponibilità creativa artistica napoletana, ma anche sulla necessità di una coscienza attiva della conservazione e della possibilità di fruizione – nel caso in ispecie, una fruizione in itinere e solo apparentemente distratta – che si attivi producentemente su tutto quanto le arti ci sanno offrire come testimonianza e specchio della nostra stessa esistenza.
Quanto, oggi, in una ben diversa riallocazione, quelle opere le vorremmo immaginare come parti significative e qualificanti del patrimonio museale, ad esempio, di Pietrarsa!
il senso del ricordo e della disamina da parte del prof. R. Pinto risulta preciso e analitico come chirurgo del ricordo. Grazie. Sergio Spataro viaggiatore in metropolitana sceso alla stazione di p.zza Amedeo.