“Siamo caduti in trappola”, “non riusciamo ad uscirne fuori”. Queste due frasi, questi due versi rappresentano l’incipit di una delle canzoni più famose canzoni di Elvis Presley, ‘Suspicious Minds’ del 1971. Un brano che permise al Re del Rock di balzare direttamente alla testa delle classifiche musicali dell’epoca; un singolo usata anni più tardi per descrivere, per non dire sottolineare, in maniera diretta, uno dei sodalizi più enigmatici della storia delle sette note: quello del manager Tom Parker e, appunto, Sua Maestà Elvis Presley.
In questa scelta di Baz Lurhmann c’è tutta l’essenza di un biopic scritto e diretto con cura, con parsimonia. L’attenzione ai dettagli, la selezione dei momenti topici della vita di colui che sconvolse, non solo a suon di note, il mondo delle sette note. In ‘Elvis’ non c’è soltanto la vita di un uomo che tocca le vette del cielo a cade a causa dei suoi tormenti, no. C’è di più. C’è la storia del Rock’n’Roll, quello al quale le giovani generazioni si inizieranno ad avvicinare, molto probabilmente, grazie a questo film biografico.
Che Tom Hanks fosse un animale da recitazione era ormai assodato da anni, ma non scherza neanche Austin Butler. Il suo ruolo, la sua missione, le sue capacità di immedesimarsi nel sovrano più famoso della storia della musica sono state all’altezza del non facile compito per cui è stato chiamato. Già qualcuno sta alimentando i primi paragoni con l’attore di ‘Bohemian Rapsody’.
Paragoni, al momento, troppo frettolosi e, forse, anche un po’ fuori luogo. Bisogna dare il tempo al pubblico, nella sua completezza, di interiorizzare il film; di permettere alle nuove generazioni di conoscere, anche solo per una lontana e flebile curiosità, chi fosse, in realtà, Elvis Presley.
Nella sceneggiatura, portata sullo schermo e scritta anche dal regista, c’è quasi tutto e nonostante le 2 ore e 39 era difficile condensare oltre venti anni di carriera, considerando anche i primi anni di vita del cantante. Di come sia effettivamente nato il rapporto, il legame, indissolubile tra lui e la musica. Una storia iniziata in quel di Memphis, sua città adottiva, dopo essere nato a Tupelo l’8 gennaio del 1935. Una storia che si basa sul classico elemento della voce narrante, ma non del diretto interessato, ma di chi visse quell’epoca in prima persona, chi permise ad Elvis di nascere musicalmente: il misterioso Colonnello Tom Parker.
Se nella realtà fu proprio lui a dare il via al tutto, questo merito gli spetta anche nella finzione; anche nel film. Lo fa quasi in un modo difensivo, quasi come per dire: ‘ehi sono io, comunque, colui che vi ha regalato Elvis’ e quindi di conseguenza, come dice una delle sue battute, all’interno del film: qualcuno vorrebbe farmi fare la figura del cattivo.
Un approccio, quello di Baz Lurhmann, apparentemente scanzonato, apparentemente spensierato ma al tempo stesso molto profondo e malinconico. La figura di Elvis è ancor più analizzata nella sua essenza viene pronunciata una frase, durante un momento di riflessione da parte del protagonista: “Tra poco avrò quarant’anni e la gente non si ricorderà di me”.
Parole che fanno venire i brividi, parole grazie a Dio non profetiche perché il mondo intero, difficilmente, si dimenticherà di lui. Quel discorso, in verità, è strettamente connesso ai versi con i quali abbiamo aperto la recensione.
Quella trappola a cui si fa riferimento non è relativa al sentimento più puro e nobile che si può provare nei confronti di una persona, ma bensì dall’aria che tirava tra lui e lo stesso colonnello. Per anni, nella realtà, ci si è chiesti come mai uno come Elvis Presley non fece mai una tournée in altri continenti. La risposta, dopo qualche anno dalla misteriosa scomparsa del cantante, non tardò ad arrivare: fu colpa proprio di Tom Parker.
Con la scusa dell’eccessiva sicurezza nei confronti di chi rappresentava non voleva perdere di vista il suo investimento più grande, per poter così appianare i molti debiti che lo assillavano. C’è di più: il Colonnello Tom Parker era veramente un immigrato clandestino. Si, ottemperò al servizio militare ma prima di questo non c’era alcuna traccia di lui. Una sorta di fantasma sbucato dal nulla e scomparso, poi, qualche anno dopo Elvis Presley.
Lo stesso Presley nel biopic viene mostrato così com’era nella realtà. Imbattibile sul palco, ma molto fragile nella vita reale. Non sono mancate qualche differenza con la realtà, qualche licenza poetica d’altronde era anche comprensibile e quasi d’obbligo in questi casi.
Dalla collana della Chiesa Evangelica, frequentata realmente da futuro Re del Rock, alla romanzata scoperta di Parker di Elvis. Il manager e il cantante non s’incontrarono mai ad una fiera e lo stesso Parker non ha mai lavorato come giostraio. Per esempio, è risaputo che la nascita del rock è il frutto dell’unione di due particolari stili musicali totalmente differenti l’uno dall’altro: il country e il blues.
Nel film il rock sarebbe nato dalla fusione del blues ma con il gospel. Elvis non ha mai scelto di arruolarsi nell’esercito, venne chiamato direttamente. La registrazione dello show natalizio, il famoso ‘Comeback special ‘68’ venne registrato molto mesi dopo l’assassinio del Senatore Kennedy e non durante.
Nonostante queste incongruenze storiche, nonostante queste troppe licenze poetiche, precisando che non le abbiamo indicate tutte, il film non delude le attese. Baz Lurhmann ha il merito di riportarci in quell’atmosfere del dopoguerra dove regnava la speranza e tutto era nuovo. Tutto era novità. Grazie ai dialoghi veloci e non banali, con uno stile molto giovanile ed una fotografia dai toni vivaci, la storia di Elvis Presley viene raccontata con estrema attenzione.
Un biopic di cui si parlerà molto in futuro e che, in questi primissimi giorni di programmazione, ha incassati già 3,5 milioni di dollari. Per questo weekend si prevede possa arrivare tra i 25 o i 30 milioni di dollari. Insomma, adesso si può dire: il Re del Rock è tornato. Anzi, è tornato a ‘vivere’ grazie a Baz Lurhmann e la convincente prova di Austin Butler, senza dimenticare l’immenso talento di Tom Hanks.