È possibile osservare, nell’arte della seconda metà del ‘500, la fioritura di una coscienza della crisi e la maturazione di un linguaggio figurativo che l’accompagna
Nel 1520 muore Raffaello, nel 1564, Michelangelo; tra questa due date si consuma, nel 1527, il ‘sacco di Roma’.
L’integrità della sede papale è violata dalle soldataglie di Carlo V e si respira un’aria di cambiamento radicale al cui interno sembra aver poco senso la pace olimpica additata da Raffaello, ma anche la grandiosità onnipotente che ispirava Michelangelo.
Al trionfalismo cede il posto la precarietà e la coscienza si ripiega su se stessa avvertendo il limite delle possibilità umane, ma, non meno, il bisogno di una via d’uscita, il poter proporre una opportunità di salvezza, una salvezza non più immaginabile come l’avverarsi di un grande disegno.
Michelangelo, Tomba Giulio II, e Pietà ‘Rondanini’
Michelangelo, in fondo, sembra essere il grande sconfitto; ed il ‘progetto’ della Tomba di Giulio II costituisce, di fatto, l’emblema dell’insuccesso di questo grande maestro, ciò in cui s’annida l’amarezza di un artista che ha lottato, praticamente nell’arco di una vita, per poter vedere compiuto un geniale disegno in cui potersi convincentemente specchiare.
Il 1527 segna la data in cui avviene l’allontanamento degli artisti da Roma, artisti che porteranno in giro, in Italia ed in Europa, il germe della solarità rinascimentale; Raffaello non ha fatto a tempo a vedere lo scempio, ma Michelangelo rimane in vita a consumarsi nella ricerca di una ‘visione’ del mondo, della quale, in fondo, egli sembra definire la prospettiva deludente e sconfortante nella consistenza avvolgente del gruppo della Pietà Rondanini, alla quale consegna il suo sconsolato testamento culturale.
Raffaello, Stanza di Eliodoro
Quanta distanza dalla Pietà giovanile di san Pietro; non più le forme calde ed avvolgenti, il disporsi armonico dei volumi concepiti nella struttura della perfezione piramidale, ma l’avvolgersi sfibrato di una linea che serpeggiando s’attorciglia su se stessa andando a generare dei corpi che non sembrano giustificare il loro reggersi in piedi: figure apparentemente improbabili, tenute insieme dallo sconforto e dalla disperazione della fine, chiuse nell’allucinazione di una sconfitta senza apparente redenzione slabbrate in un ‘non finito’ che è, in fondo, un ‘senza fine’.
Dalle prospettive auree e dense di trionfante fulgore delle ‘Stanze’ raffaellesche, nel giro di pochi decenni, ciò che si presenta nel panorama dell’arte è l’affermazione dell’incertezza e del dubbio, l’angoscia esistenziale, la consapevolezza dell’ineluttabilità dei limiti.
A dare certificazione di tutto ciò interverranno gli artisti che ‘hanno fatto’ il Rinascimento cosiddetto ‘maturo’, quegli artisti che in tutta Italia e in tutta Europa hanno portato il verbo raffaellesco-michelangiolesco reinterpretandone le ragioni in vista dell’affermarsi di una nuova considerazione della vita e della storia: la fine definitiva dell’universalismo morale, culturale e politico e l’affermarsi della cultura della precarietà, dell’insicurezza e del dubbio.
Giulio Romano, La caduta degli dei
Sul piano creativo, questi artisti, che sono quelli della cerchia raffaellesca e michelangiolesca – da Giulio Romano a Marco Pino – per stabilire una sorta di larga perimetrazione, inaugurano una pittura di carattere fondamentalmente espressionistico, incentrata sulla prevalenza del linearismo serpentinato, un procedere, cioè, nella direzione dell’avvitamento su se stessi, quando null’altro può consegnare la prospettiva del futuro se non la sottile speranza di una qualche possibilità di salvezza.
Lungo questo percorso di forte sensibilità individuale, di acuta consapevolezza della crisi, in un percorso che vede, ad esempio, Montaigne denunciare la profondità della crisi, avendo come profilo d’indirizzo della propria ricerca null’altro che l’orizzonte di una profilatura morale assolutamente distonica rispetto alle prospettive di un mondo che consumava i suoi tempi nel tentativo di stabilire nuove supremazie e nuove distribuzioni di attribuzioni.
L’arte descrive puntualmente queste cose, Vasari ne traccia una profilatura, a suo modo, puntuale, ma certamente parziale e ‘ideologicamente’ orientata, inaugurando non solo una prospettiva inusitata di indirizzo critico-storiografico, ma riuscendo a stabilire qualcosa di molto importante, e cioè la consapevolezza del rilievo politico del ruolo dell’arte.