Diretto dalla grande regista Lina Wertmuller scomparsa lo scorso 9 dicembre. Il film ha vinto due nastri d’Argento e un premio ai David di Donatello
Negli anni Settanta il cinema italiano modifica stilemi, personaggi, paesaggi, registra i cambiamenti politico-sociali, nonché quelli del costume, delle mode e dell’agire della società civile postsessantottina e li racconta con grande determinazione in Mimì metallurgico ferito nell’onore.
In questo film Fiore (Mariangela Melato) e Mimí (Giancarlo Giannini) rappresentano due prototipi molto accentuati sia in senso linguistico che in senso visivo. L’origine siciliana di Mimì si manifesta, oltre che nel modo di parlare (forte accento, uso del passato remoto, ecc.), anche nei gesti, nelle espressioni del viso, carico di estrema passionalità, e nel comportamento.
Fiore invece è il prototipo della rivoluzionaria metropolitana del nord degli anni 70, idealista e proletaria. Il suo modo di parlare è caratterizzato da un’articolazione molto veloce e da un uso intenso di segnali discorsivi alla fine dei turni di conversazione, per dare forza a quello che ha detto, sfidare o provocare l’interlocutore.
Mimì, per le sue idee politiche di sinistra, viene licenziato e si vede costretto a separarsi dalla giovane moglie Rosaria per partire alla volta di Torino in cerca di fortuna; qui viene accolto dall’Associazione Fratelli Siciliani, che gli trova lavoro come edile e gli offre alloggio. Ben presto Mimì si rende conto che la pseudo-organizzazione assistenziale altro non è che una propaggine mafiosa creata per coprire una serie di attività illecite.
Riesce a farsi sistemare dai potenti fuorilegge in un’industria metallurgica. Allaccia una relazione con una ragazza lombarda, Fiore, dalla quale ha un figlio. Trasferito nella natia Catania, Mimì si barcamena tra l’amante e la moglie, la quale gli confessa di attendere un figlio da un brigadiere della Finanza. Mimì vendica l’affronto seducendo la moglie del brigadiere, Amalia.
Allorché Mimì rivela beffardamente al brigadiere di essere responsabile della prossima maternità di Amalia, un sicario mafioso, nell’intento di proteggerlo dalle reazioni del brigadiere, uccide quest’ultimo. Mimì viene ben presto scarcerato grazie all’influenza della mafia: all’uscita trova Rosalia e Fiore con i rispettivi figli, cui d’ora innanzi dovrà badare. Divenuto galoppino elettorale di un noto esponente mafioso, Mimì sarà abbandonato da Fiore – l’unica donna che egli veramente ami -, disgustata dalla trasformazione ideologica subita da Mimì.
C’è dentro tanto, in Mimì, troppo. La Wertmüller dice che si tratta di un film politico, in quanto è una “parabola del falso progresso”. Mimì è un siciliano sensibile alle condizioni esistenziali in cui si muove e tenta di riscattarsene, la ribellione/rivolta che è la fuga, il cambiamento di registro. Eccolo dunque al Nord, in uno dei vertici del triangolo industriale: ma qui deve fare ancora i conti con la lebbra da cui ha creduto
di guarire semplicemente prendendo un treno.
La mafia, nel Nord, si è mimetizzata, ma Mimì la conosce bene (la Wertmüller ha addirittura configurato il fenomeno attribuendogli dei segni esteriori di riconoscimento: i tre nei che tutti gli appartenenti alla “famiglia” portano sulla guancia destra. E Mimì, questi nei, li vede sulla faccia di capoccia, sindacalisti, magistrati, ecc.).
Insomma, le forze di quel potere sotterraneo che l’hanno spinto a cambiare aria se le ritrova davanti sotto altre forme e in maniera più subdola e pericolosa; qui, anzi, queste forze sembrano a poco a poco investire addirittura l’ufficialità delle strutture, il potere costituito. Mimì, che si illude di essersi “civilizzato” quando è diventato un “metallurgico” efficiente rotella del grande Nord industriale, preparato a questo tipo di pressione, e soccombe su tutti i fronti.
Nell’ultima inquadratura lo vediamo, abbandonato dalla sua donna e dall’amico progressista, mentre sta facendo propaganda politica per far eleggere il capo-mafia (lo stesso contro il quale in passato aveva cercato di opporsi): in “campo lunghissimo” eccolo rincorrere inutilmente il camioncino dei due testimoni del suo passato “adulto” che si allontana sempre di più, e poi fermarsi, piccolo e nero in mezzo ad una grande salina bianca, silenzioso nel vento che soffia, dopo che anche le note dell’inno “Fratelli d’Italia”.
Mimì resta solo, dunque, abbandonato e dannato, a piagnucolare su sé stesso, paradigma vivente di una sconfitta, ricaduto nella barbarie dopo l’illusione del volo “progressista”. Il significato di questa sconfitta si può attribuire verso tutta una mentalità prevaricatrice che basa il potere sull’abuso, e che annichilisce gli individui svuotando di forze anche quelli che hanno una testa e una coscienza.