Può essere ragionevole sostenere che la linea identitaria seicentesca della pittura napoletana si caratterizza di una originale peculiarità nutrita di equilibrio e moderazione; e Santafede ne è il profetico iniziatore
Nella lettura storiografica e critica che viene offerta della pittura seicentesca napoletana si è affermato un indirizzo valutativo che privilegia la interpretazione del suo sviluppo all’insegna dell’esemplarismo caravaggesco.
Tale prospettiva critica è senz’altro valida ed attendibile, ma, forse, occorre considerare il piano di non esaustiva pregnanza – ridimensionandone l’impatto – che ebbe la cosiddetta ‘lezione’ caravaggesca nell’ambiente partenopeo.
I caravaggisti di stretta osservanza – al netto di anche altre sensibilità che le loro opere denunciano – furono sostanzialmente Battistello Caracciolo, Carlo Sellitto e Filippo Vitale.
Per il resto, nella lunga schiera di pittori che, comunque, mostrano sensibilità naturalistiche – dal Ribera al Preti – ed avendo anche conto, in tale prospettiva, di personalità come Juan Do, Jusepe de Ribera, Bartolomeo Passante, Francesco Fracanzano, occorre far ricorso ad una varietà di formule intermedie che vanno dal ‘tremendo impasto’ che definisce la pittura addensata e corrusca del Ribera, passano poi per la definizione di ‘pittura di valore’ propria della sensibilità stanzionesca, per giungere infine al ‘naturalismo accomodato’ appartenente alle fluenze luministiche pretiane. E tutto questo, evidentemente, al netto delle prospettive ‘barocche’ che aprono tutt’altro ragionamento storiografico e critico, si intestano al Giordano e non rientrano nello specifico di cui qui intendiamo, sia pur brevemente fornire qualche spunto di riflessione.
Fabrizio Santafede
Rimane, quindi, ben chiaramente al di fuori di tutto questo percorso che può ricondursi all’esemplarismo caravaggesco, più o meno rilevante, la produzione creativa di artisti che costruiscono una pittura di grande affabilità formale, andando apparentemente a coniugare una sensibilità propriamente ‘naturalistica’ con l’esigenza di un addolcimento composto e suadente di una godibilità flautata che si articola da Massimo Stazione a Bernardo Cavallino, da Andrea Vaccaro a Giambattista Spinelli, da Paolo Finoglia ad Antonio De Bellis – e si potrebbe continuare ancora a lungo.
Molte di queste ultime cose, secondo una dirimente valutazione critico-storiografica, deriverebbero dall’esemplarismo emiliano, riconducendo, ad esempio, ad un influsso dal Reni, dal Domenichino, o dal Lanfranco, le atmosfere di suadente compostezza dello Stanzione, che viene addirittura additato come il ‘Guido napoletano’ facendo riferimento, appunto, a Guido Reni.
Non manca del vero, o del verosimile, in tutto ciò; ma certamente manca, però, una più accorta valutazione del contributo offerto in tale indirizzo d’orientamento produttivo nell’ambiente propriamente partenopeo, un indirizzo che può essere da individuare, segnatamente, nella lezione del Santafede.
Ecco, ‘hic sunt leones’: occorre chiedersi, infatti: può essere soddisfacente, allora, ricondurre questa ampia temperie alla ‘sola’ prospettiva critica di una ‘dipendenza’ caravaggesca, ‘temperata’ dal moderatismo emiliano, fornendo una lettura critica che richiede, peraltro, per poterla pienamente accettare, di considerare la ‘linea produttiva del 600 napoletano’ come una sorta di ‘tradimento’ (a parte i più stretti seguaci) della accezione più intensa e fedele del ‘verbo’ naturalistico-caravaggesco?
Immaginiamo – e timidamente suggeriamo – che potrebbero essere adottate anche altre linee di profilatura valutativa, andando a considerare, in sostanza, l’intervento caravaggesco ed il suo esemplarismo esercitato nel contesto partenopeo come un ‘arricchimento’, piuttosto che come una ‘matrice’.
Si valorizzerà, in tal modo, soprattutto la figura, quindi, di Massimo Stazione e si potrà osservare in una luce di nuova rimodellazione storiografica e critica la personalità proprio di Fabrizio Santafede, considerando tale artista, che, cronologicamente anticipa tutti i nomi che abbiamo già appena citato, come colui che, muovendo da istanze tardocinquecentesche, sviluppa una linea creativa di fertili relazioni con la datità oggettuale, rinunciando alla esaltazione eidetica delle cose ed andando a suggerire, piuttosto, una descrizione fedele e composta, in cui l’emergenza riproduttiva del reale fenomenico non impedisce di poter stabilire anche un afflato colloquiale con tutto ciò che è oggetto dell’umana esperienza conoscitiva e sensoriale.
Il merito di Santafede, che affianca, peraltro, Caravaggio stesso, ad esempio, nella chiesa del Pio Monte della Misericordia, fu quello di aver letteralmente trasformato l’impianto tardomanieristico in una opportunità di nuova proposta creativa, come, in fondo, aveva provato a fare lo stesso Battistello Caracciolo, prima di convertirsi, in modo osservante e sia pure con alcune note di intrigante originalità, al ‘verbo’ caravaggesco.
Ma è a Santafede che si deve, a nostro giudizio, il risarcimento storico più notevole, riconoscendogli un ruolo, appunto, di ‘matrice’ di quell’orientamento – che è stato definito anche ‘di valore’ – della pittura che lo Stanzione porterà al pieno successo, improntando di sé praticamente tutto il secolo, rendendosi disponibile a fornire una visione ammorbidita e più dolce delle ruvidezze del Merisi che si trasformano nelle suadenti lanosità dello Stanzione e della sua ‘scuola’ o anche del Guarino e, non meno, nelle volute seriche e fruscianti di Artemisia Gentileschi e dello stesso Cavallino.