La squadra di Tuchel ha mostrato personalità in campo, deludenti Guardiola e i suoi ragazzi
Si attendeva il secondo timbro nell’albo d’oro della Champions League da parte di Pep Guardiola, invece dopo nove anni è il Chelsea ad alzare al cielo di Porto la Coppa dalle grandi orecchie e far gioire i proprio tifosi. Merito del tecnico tedesco, subentrato a metà stagione a Frankie Lampard, Thoma Tuchel. Il quale ha comunque ringraziato il collega sostituito, affermando che il merito è anche suo per aver costruito la squadra e per aver fatto il turno dei gironi in modo impeccabile.
La sfortuna però si è messa di traverso durante le partite del campionato e la bandiera Blues, Lampard, non è riuscito nell’impresa di portare il suo Chelsea, squadra di uno dei tanti quartieri di Londra, sul tetto d’Europa per la seconda volta dopo quella del 2012, quando era solamente un giocatore, nonché anche capitano.
Se qualcuno ha notato un certo particolare vuol dire che non solo sa seguire il calcio in generale, ma soprattutto è addirittura molto attento. Nell’annata della prima storica Champions League, il Chelsea, subì il cambio di allenatore per lo stesso identico problema. Ad Andrè Villas-Boas, ritenuto all’epoca il nuovo Josè Mourinho, subentrò Roberto Di Matteo, ex giocatore dei blues ai tempi di Zola e Vialli, e la squadra trionfò nella finale di Monaco di Baviera contro ai padroni di casa: il Bayern Monaco. Sono trascorsi solamente nove anni, ma quella vittoria appare ad un’altra era calcistica.
Con la conquista di Porto, il Chelsea, batte il proprio avversario, guarda caso, sul piano del gioco. Affermare, però, che i blues hanno surclassato il Manchester City solo per proprio merito è comunque inesatto. C’è una componente nel calcio che vale molto di più di mille schemi e di tutti i fuoriclasse che si possono posizionati in campo. Una componente menzionata nell’analisi della finale dell’Europa League: l’elemento psicologico.
Il Manchester City sembrava in balia di sé stesso. Tra le due squadre era proprio quella di Guardiola ad avvertire ancor di più la pressione. Infatti in 127 anni di storia i ‘Citizens’ non erano mai approdati a tale traguardo: la finale di Champions League. Difatti il City non ha per niente giocato come sapeva e il Chelsea, dal canto, suo è stato il ‘Manchester City’ nei 90 minuti.
A timbrare il tabellino dei marcatori ci ha pensato, grazie comunque all’unica disattenzione della difesa degli avversari, il quasi ventiduenne centrocampista tedesco Kai Harvetz al minuto 42 del primo tempo e di fatto la partita è in realtà terminata in quel momento. Chi si aspettava un match, dalla rete in poi, ancor più aperto e ricco di capovolgimenti di fronte e altri gol è rimasto deluso.
Il Chelsea, come detto, ha fatto la partita portandola dove voleva fin dall’inizio. Guardiola, stranamente, sembra non essere riuscito a presentare il City equilibrato in campo. Sembrava bloccato e con poca personalità. Mentre il Chelsea sembrava giocare libero da ogni tipo di pressione. Ecco che l’elemento psicologico ritorna sempre.
Pep Guardiola, l’inventore del ‘tiki taka’, ha subito una vera lezione di calcio e lui, rispetto ad alcuni suoi giocatori, la prende con filosofia e sportività baciando la medaglia del secondo classificato. Un gesto sportivo, per non dire d’altri tempi dove lo sport, inteso come valore assoluto, non sempre viene riconosciuto come tale.
In definitiva, nello stadio ‘Do Dragao’, ha meritato la migliore squadra. Il miglior collettivo, il miglior gruppo. Un team senza veri fuoriclasse, ma composto da campioni che fanno squadra e con un allenatore capace di plasmarli in base al suo ‘credo calcistico’. Con uomini capaci di saper interpretare gli schemi al momento giusto e nelle occasioni giuste. Con un ulteriore elemento, non di poco conto, la personalità. Elemento non mostrato dal City e che di fatto, al di là del valore in campo dei giocatori che non si discute, ha rovinato una serata che, a parte il risultato, poteva essere veramente da ‘Champions’.