Una breve serie di appuntamenti per celebrare i sessanta anni della marcia più famosa della storie dei diritti civili negli Stati Uniti d’America.

In un’epoca in cui tutto sembra essere messo in discussione. Dove principi, valori e, soprattutto, l’umanità stessa, come concetto, sembra essere andato perduto da tempo o quantomeno dimenticato, c’è stato un periodo in cui le ingiustizie, in speciale modo, quelle razziali, venivano affrontate in tutt’altro modo, in tutt’altro stile e soprattutto, dettaglio non proprio irrilevante, il nemico da affrontare non era da odiare semmai si cercava di fargli capire che stava, semplicemente, sbagliando.

Ciò valeva per alcune persone che, nonostante ciò, riuscivano ad avere un senso critico e quindi ad intuire che su una certa strada intrapresa non era possibile continuare, non era possibile proseguire.

D’altronde l’epoca a cui stiamo facendo riferimento risale a sessant’anni fa esatti. Un periodo storico dove le singole posizioni non erano così radicalizzate come oggi e dove il dialogo era la vera arma per abolire quegli ostacoli che non garantivano, nei fatti, il principio di uguaglianza negli Stati Uniti d’America. Un principio di uguaglianza ostacolato nel retaggio della schiavitù e di quelle leggi Jim Crown che nel profondo Sud degli Usa, trovavano ancora linfa, mentre il resto del paese cercava nuove vie per rinnovarsi.

Eppure, parafrasando il buon vecchio Gene Hackman, scomparso da poco, in una delle sue memorabili performance recitative, in Mississippi Burning – Le Radici dell’odio, in cui, nei panni di un agente federale dai modi molto spicci ma determinanti, spiegava al suo giovane collega, apparentemente inesperto, impersonato da Willem Dafoe, come funzionava la mentalità negli Stati del Sud: qui siamo un milione di miglia da Memphis e il resto del mondo non conta nulla. In realtà la battuta terminava con un’altra parola che noi qui non vi riportiamo, ma la sostanza è abbastanza chiara nella sua essenza.

Inoltre, l’epoca in cui è ambientato il granitico poliziesco diretto da Alan Parker è lo stesso della storia che vi stiamo non solo per raccontare, ma soprattutto per ricordare. Anni ’60. Si, quei mitici, leggendari e anche tragici anni contrassegnati da dure e vere lotte per la sopravvivenza senza l’ombra della ideologizzazione per antonomasia.

Quello stesso decennio fu un periodo comunque strano. Come più volte ripetuto, il secondo conflitto mondiale era terminato quasi due decenni prima e il mondo poteva guardare con ottimismo al futuro, nonostante tutto; nonostante quelle questioni che, anche allora, si trascinavano da un bel po’. Negli Usa la schiavitù aveva rappresentato non una ma la pagina nera per eccellenza della storia americana e una parte stessa di nazione, una parte stessa di popolazione non aveva guadagnato nulla dal sogno americano. Anzi, la possibilità o le possibilità di potersi creare una vita migliore in quello che era sempre stato considerato il nuovo mondo erano pressoché nulle per gli afroamericani.

Come oramai è ben risaputo da tempo, il loro viaggio verso le coste del Nuovo Mondo non fu mai volontario e libero. Furono resi schiavi da noi europei per essere portati in quelle terre affinché venissero usati per costruire una nuova nazione. In quel decennio 1960 l’aria e l’atmosfera erano abbastanza elettriche, tra le proteste per la guerra in Vietnam e quelle relative per i diritti civili. Proprio in merito a quest’ultimo aspetto la storia che stiamo per raccontare è rivolta la nostra attenzione, una storia che racconta, a sua volta, il coraggio di cambiare le cose nel modo giusto.

Una storia che comprende diversi anniversari, di cui uno già celebrato nel mese appena trascorso, quello di febbraio, e che troverebbe inizio non tanto nel dicembre del 1964; semmai nell’agosto dell’anno ancora precedente. Ovvero relativo a quel 28 agosto del 1963 celebrato anche da noi in tempi non sospetti, in cui in quel giorno venne celebrata la famosa frase, con la quale ha da sempre riconosciuto il discorso più famoso per antonomasia, con il titolo di ‘I Have Dream’. Quelle parole valsero, quasi un anno e mezzo più tardi, al Reverendo Martin Luther King il Premio Nobel per la pace.

Fino a quel momento, il predicatore protestante, conosciuto anche come l’Apostolo della non violenza, grazie al pacifico rifiuto di Rosa Parks avvenuto dieci anni prima, era riuscito ad ottenere importanti successi, per la propria comunità afroamericana, in favore dei diritti civili, riuscendo ad abolire la segregazione razziale in diversi ambiti dell’amministrazione pubblica nel Sud degli Stati Uniti. Per completare il quadro, mancavano ancora dei tasselli, tutti rilevanti; nessun escluso. Il punto però che lo stesso Martin Luther King alzò il tiro, sia doverosamente e giustamente, quando si trattò di fare estendere il diritto di voto alla propria gente. Si, avete capito di cosa stiamo parlando: la famosa marcia da Selma a Montgomery.

In effetti, se avete notato con molta attenzione cari lettori, tutto, effettivamente, da quel lontano 1° dicembre del 1955, ebbe inizio proprio dalla cittadina del Tennessee. La lotta che decise di sposare l’uomo di Atlanta la ritrovò, per un’altra fondamentale tappa verso la realizzazione del sogno, proprio nello stesso luogo in cui Rosa Parks esternò tutto il suo disappunto per veniva tratta lei e la sua gente.

Questa volta per giungere all’obiettivo serviva ancora di più scaltrezza, diplomazia e pazienza; di questo Martin Luther King ne era assolutamente consapevole. Si trattava di convincere il Governatore dell’Alabama, George Wallace, e l’allora Presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson, che aveva ereditato la Casa Bianca dopo la tragica morte di JFk. Ma perché tale diritto di voto veniva sistematicamente negato?

Il motivo per cui questo diritto veniva sistematicamente non concesso era semplice. Ogni cittadino, negli Stati Uniti d’America, che si registra presso gli uffici elettorali gli permette, inoltre, di venir nominato come componente di una giuria su un determinato processo. Partendo dal presupposto che, nel Profondo Sud degli Usa, molti reati erano a sfondo razziale era facile intuire del perché gli afroamericani non gli venisse concesso tale diritto e quindi a partecipare ad un processo la cui vittima era membro della loro comunità l’imputato, un bianco, avrebbe dovuto esser condannato.

Con questi presupposti, ora come ora, possiamo iniziare a raccontarvi questa parte di storia che ci permette di scoprire una delle pagine più memorabili della lotta per i diritti civili: la marcia di Selma…

Continua domani…

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