Sembra non essere passato il tempo sulle spalle della pellicola di Zabriskie Point e sembra che i contenuti di pensiero che in essa si addensavano possano ritenersi ancora urgentemente attuali, così come attuali appaiono alla nostra sensibilità le articolazioni problematiche che agitavano la recitazione del teatro antico classico, dove già si proponeva alla mente dell’autore la necessità di escogitare una progressione narrativa che potesse soddisfare l’esigenza di tenere legato l’uditorio alla rappresentazione e di coinvolgerlo fino alla liberazione catartica.
In fondo, anche Antonioni, l’autore di Zabriskie Point, un film molto controverso, che celebra oggi i cinquant’anni di età, pensa ad una conclusione di chiara impronta catartica per la narrazione di cui egli traccia lo svolgimento.
Epperò, prima di giungere alla conclusione, la celeberrima conclusione del film, quella in cui tutto esplode e si proietta in innumerevoli frammenti nell’aria, sarà bene soffermarsi su alcuni aspetti salienti che definiscono la perimetrazione complessiva entro la quale è ragionevole iscrivere la pellicola.
E scopriremo, innanzitutto, che questo film va letto come una sorta di favola, come la narrazione di una vicenda che ha dei tratti di evidente scollamento con la realtà credibile della vita ordinaria, andando a scegliere intenzionalmente di collocarsi in una sfera esperienziale che rivela peculiarità distintamente surreali.
Osserviamo, d’abbrivio, che Antonioni sceglie di articolare la materia seguendo un suo particolare corso di sviluppo, ove la credibilità narrativa non è segnata dalla ragionevolezza degli eventi, ma da un intendimento propositivo che trova la sua logica solo nella mente del regista stesso.
Antonioni, insomma, chiede al suo pubblico di immergersi nella vicenda narrata e di seguirne lo sviluppo ‘come se’ tutto potesse essere assolutamente credibile e verificabile, senza aver conto del fatto che tutta l’articolazione degli eventi è totalmente priva di qualsiasi congruità spaziotemporale e di qualsiasi opportunità di verificabilità, rendendosi – potremmo dire popperianamente – assolutamente indisponibile anche alla prova della stessa ‘falsificabilità’ dell’oggetto di riflessione.
Dove, potremmo chiederci, andare a trovare gli agganci, i precorsi di una siffatta formulazione? Se qualche altro film di Antonioni – pensiamo a Professione reporter , che, comunque, è successivo (1975) a Zabriskie Point – può condurci sulle piste di un debito pirandelliano, Zabriskie Point richiede, invece, altri parametri, che sarà possibile identificare, nella specie, nel portato della temperie pittorica surreale – nelle opere, ad esempio, di un Tanguy – ma avendo conto che il solo esemplarismo surreale non è capace di chiudere su se stesso la referenza ideale e morale dei contenuti del film, per il quale può essere utile aver conto dell’esperienza nouveau-réaliste che s’andava compiendo, già dal 1960, ad opera di alcuni sperimentatori delle arti visive che seguivano l’indirizzo del critico Pierre Restany.
Le dinamiche surreali, unitamente con una sensibilità nouveau-réaliste costituiscono il plafond su cui si mantiene tutto l’ordito narrativo di Antonioni, che articola una vicenda all’apparenza ‘impossibile’, che narra di due giovani, di un amore senza regole né ragioni, di un epilogo assolutamente incredibile, sullo sfondo di una società affluente e sbandata che cerca il suo equilibrio nella condizione di un benessere artigliato ad ogni costo ed al di là di qualsiasi parametro di giustizia e di ragionevolezza.
Questa società, sembra dirci Antonioni, non riesce a fare i conti con la storia, e non riesce a trovar spazio per le ragioni umane e per lo stesso bisogno di un appagamento esistenziale, non a caso avvertito come ansia intellettuale e politica da parte dei giovani studenti universitari che cercano di programmare velleitariamente la rivoluzione e che si riscoprono come reclute immature gettate nel campo della lotta senza avere né piena coscienza dei processi, né piena conoscenza degli strumenti e delle regole stesse di un gioco molto più grande di loro.
Tutto appare sovraesposto in Zabriskie Point, tutte le figure sono sostanzialmente ‘caricate’ ed appaiono complessivamente ‘incredibili’ pur nella banale semplicità dei loro gesti. Due giovani, dicevamo, s’incontrano quasi per caso: entrambi vorrebbero fuggire, ma senza saper dove, aspirano ad allontanarsi più che da una realtà ben definita delle cose, da un modello di realtà.
Tutto intorno a loro sembra svolgersi per assecondare il loro gioco, un gioco che si sviluppa intorno a questo luogo mitico che è Zabriskie Point, un luogo del deserto, un luogo dove non può succedere nulla, dove non c’è nulla e che vale molto bene a proporsi come l’emblema del vuoto assoluto, della mancanza di progetto di una generazione che mostra di non rendersi conto di essere profondamente manipolata, pur essendo convinta di svolgere una azione protagonistica.
Il film di Antonioni intendeva dire queste cose cinquant’anni fa, all’esordio del decennio degli anni Settanta, quando, ad esempio, era già appena avvenuta la strage di Piazza Fontana, ma erano ancora tutte da venire le tragedie degli ‘anni di piombo’ del decennio dei Settanta.
Potremmo anche dire che Antonioni descrive l’America – l’America delle grandi solitudini e dei grandi spazi – ma pensa, in realtà, alla Europa ed all’Italia, senza voler mai darne ad intendere, ma provvedendo a rimanere sostanzialmente lontano da una realtà che egli non esita a prefigurare, ma di cui non intende intestarsene i contenuti di progetto.
Il tema della deflagrazione che appartiene alle logiche di Tinguely, e, quindi, alle prammatiche del Nouveau Réalisme, giova, allora, molto bene a dare un senso ad un universo popolato di ‘macchine inutili’, per dirla con Munari, ambientate in scarni paesaggi che sembrerebbero di Dali, se non appartenessero, invece, con la consistenza plastica che vi assumono gli scarti ed i detriti, proprio alle logiche nouveau-réalistes di Tinguely, di cui, però, è il surrealista Tanguy a fornire la paratassi propositiva con l’involarsi di frammenti che popolano molte delle sue composizioni, non a caso ambientate in paesaggi desertici ed improbabili.
Ecco, allora, Antonioni gettarsi a capofitto ad ambientare non solo spazialmente, ma psicologicamente, il suo film in un deserto, un deserto che, a tratti, ricorda gli spazi dell’indimenticabile Intrigo internazionale del ’59 di Hitchcock e che fa appello, non meno, ad una improbabile rivisitazione del grande maestro delle solitudini americane, l’inarrivabile Hopper.
E, poi, il celeberrimo finale: l’esplosione della villa che viene riproposta in numerose successioni, provvedendo il regista, di volta a volta, a fornire un accostamento sempre più pronunciato della macchina da ripresa – e quindi dello spettatore – al cuore dell’esplosione fino a lasciar spazio ad una girandola vorticosa di frammenti, ove sembrerebbero materializzarsi non tanto gli stracci di un Rauschenberg, ma sicuramente le schegge di un oggetto specifico rotto in pezzi minuti come avviene, ad esempio, in un’opera nouveau-réaliste di Arman o in una descrizione pittorica surreale di Tanguy.
Dopo cinquant’anni, questo film regge benissimo il tempo che gli si è caricato addosso: ed a noi che lo potemmo vedere, allora, oggi appare certamente meno ‘profetico’ di come alla prima uscita voleva potersi accreditare e come, in fondo, suggerimmo già allora che non dovesse essere inteso, sembrandocene più opportuna la lettura come quella dell’additamento di una sorta di metafora dei tempi e di uno sconsolato ripiegamento del soggetto umano su se stesso, costretto a dover osservare le cose senza poterne avere il controllo, sottoposto ad una coercizione del caso che, molto spesso assume i tratti di un processo inarrestabile al cui epilogo c’è sempre la disintegrazione ed una sorta di panspermia dei residui.