La breve storia di colei che innescò la vera protesta contro la segregazione razziale negli Stati Uniti d’America

Ciò che stiamo per ricordare e raccontare non è solo un evento, non è solo un fatto apparentemente di cronaca che si tramutò in qualcosa di prettamente storico, non è solo il ricordo di un rifiuto o il gesto contrario ad una norma o legge vigente in un determinato periodo di una determinata nazione. No, è qualcosa di più. non è neanche solo la storia di anonima piccola donna che, per guadagnare da vivere, svolgeva il lavoro di sarta. No, come detto è qualcosa di più: è, nella mera essenza, tutto quello che abbiamo menzionato fino adesso. Forse qualcosa, in questa piccola premessa o anteprima, come meglio preferite, lo abbiamo dimenticato, ma di sicuro lo recupereremo durante lo sviluppo di questo mini-speciale.

Negli anni precedenti, quando non avevamo ancora ideato il sistema degli speciali spalmati durante la settimana, nel cercare di celebrare al meglio questo anniversario, aprivamo sempre in questa maniera interrogativa: il numero 2857 vi dice qualcosa? Pochissimo, anzi quasi nulla e non avete tutti i torti, cari lettori. Molto spesso quando si riportano degli eventi storici, i fatti vengono raccontati, involontariamente, sempre in maniera generale.

Poi, solo qualche tempo più tardi, si cerca di approfondire con i dettagli ancor di più integrativi di ciò che è successo; specie quando si mostra l’intenzione di scoprire qualcosa di più riguardo a quello che sembrava, solo ed essenzialmente, un anonimo caso di cronaca che, in pochissime ore, divenne una vera e propria bomba mediatica. Si, era più o meno così che aprivamo l’allora singolo articolo, appunto, celebrativo.

Il numero con il quale aprivamo il nostro contributo scritto era, ed è ancora, legato indissolubilmente ad una data, storica nella sua essenza, e ad un mezzo di trasporto. Forse, adesso, cari lettori, questo ampio preambolo inizia, finalmente, a dirvi qualcosa. Forse vi viene alla mente una sconosciuta donnina, minuta, che in quella sera avrà avuto, si e no, quarantadue anni. Una giovane donna che, uscendo tardi dal lavoro, l’unica cosa a cui pensava, di sicuro, era quella di rientrare a casa e di riposarsi, finalmente. Da vivere, come ricordato in precedenza, svolgeva il lavoro di sarta e per tornare a casa doveva prendere l’autobus.

Eppure, sempre la giovane donna, non aveva la libertà di sedersi dove voleva e non perché a quell’ora i posti fossero già tutti occupati, no. Nella sua zona, nella sua città, nel suo Stato e nella sua Nazione di appartenenza, seppur non in tutta, vigeva ancora una legge che non concedeva alcune libertà: proprio come quella di sedersi su un autobus.

La sua unica colpa? Quella di essere erede di coloro che giunsero negli Stati Uniti d’America come schiavi, importati dall’Africa. La sua unica colpa era anche quella di essere nera. In quell’autobus 2857, come in altri luoghi pubblici del sud degli Stati Uniti d’America, vigeva la legge del cosiddetto separati ma eguali, meglio intesa come segregazione razziale. Le leggi Jim Crow, per essere ancor più precisi.

Ci si poteva sedere, ma solo in fondo; ed erano posti solamente per i neri. Davanti era tutto riservato ai bianchi, mentre in mezzo? In mezzo c’era la possibilità di posti misti, ma semmai saliva un bianco, il nero si sarebbe dovuto alzare per la ‘cosiddetta’ precedenza.

Quella sera successe proprio questo. Dopo il lavoro, dopo una giornata infinita, la giovane donna sconosciuta, una volta che si era seduta da un bel po’ nei posti di mezzo, visto che quelli in fondo erano tutti occupati, vide avvicinarsi a lei un bianco, ovvero l’autista del pullman di nome James F. Blake. Quest’ultimo era anche un veterano dell’esercito e quando intimò la donna afroamericana si sentì dire semplicemente ‘no’. A quella richiesta, la donna non voleva alzarsi, per non dire di non voler rispettare un ordine, da parte del conducente il quale, però, non era a conoscenza del fatto che quella donna non era una persona qualunque. Ma come sempre andiamo con ordine.

La donna era nata il 4 Febbraio del 1913 a Tugskee, un capoluogo nella contea di Macon, nello stato dell’Alabama, il profondo Sud degli Stati Uniti d’America. nacque da una famiglia di umili origini in cui il padre svolgeva il lavoro di falegname e sua madre, invece, come insegnante di scuola elementare. James Henry McCauley e Leona Carlie Edwards, questi i nomi dei suoi genitori, si sposarono l’anno prima della sua nascita, il 12 aprile del 1912.

La donna, oltre alle umili origini, crebbe con un’educazione metodista e in un ambiente in cui i neri erano continuamente e semplicemente limitati nella loro esistenza, intesa come diritti, anche quelli più semplici e basilari venivano continuamente negati. Si rese fin da subito conto quale fosse la situazione intorno a lei a tal punto da diventare un’attivista per i diritti civili.

Fino adesso, anche volutamente, non stiamo ancora specificando il suo nome, anche se è chiaro, cari lettori, che avete ben capiti di chi si tratta. Ma questa storia è particolare perché, questa mite signorina, fin dal primo momento che divenne anche lei un’attivista sposò una causa che in pochi ricordano, anzi: che molti hanno addirittura dimenticato. Ma non affrettiamoci ancora a raccontare questo aneddotto.

Dunque, eravamo rimasti alle sue origini e al tipo di eduzione religiosa con la quale era stata cresciuta e, altro particolare, che il suo cognome era McCauley e si chiamava Rosa e tornando a quella sera, al suo rifiuto, tutti quanti noi abbiamo immaginato, nel nostro piccolo, quella scena.

Chissà quante volte lei stessa aveva immaginato di reagire in quella maniera. Forse, in alcune volte, aveva persino fantasticato di farlo anche con più veemenza. Non quella volta, però. Era calma, determinata e inflessibile. Sapeva di venir arrestata, sapeva che sarebbe stata addirittura processata e che forse avrebbe atteso l’udienza direttamente in carcere. Invece no. Andò avanti per la su strada perché anni dopo dirà: Dicono sempre che non ho ceduto il posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca fisicamente, non più di quanto lo fossi di solito alla fine di una giornata di lavoro. No, l’unica cosa di cui ero stanca era subire.

Il suo cognome, dunque, cambiò all’età di soli 19 anni quando si sposò con il barbiere Raymond Parks, ecco perché tutti quanti la conosciamo universalmente come Rosa Parks.

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