Manca un solo giorno alla resa dei conti tra Kamala Harris e Donald Trump

Questo primo giorno della settimana è abbastanza particolare, cari lettori di FreeTopix Magazine. Lo è per un semplice motivo: siamo alla vigilia delle Presidenziali americane e non possiamo esimerci dal non raccontare ciò che accadde durante la campagna elettorale del 1984, con un aneddoto che mescola storia, la rubrica di ‘Road To Usa 2024, in quello che è di fatto l’ultimo speciale, e ‘Forever80s’.

Un fatto che, per certi versi, continua ad essere anche attuale, anche in merito alla corsa alla Casa Bianca di quest’anno. Ma prima di addentrarci nelle curiosità storiche, riprendiamo, seppur per poco il discorso degli stati in bilico, con il quale avevamo chiuso la seconda parte di questo lungo reportage.

Dunque, dicevamo che in ogni elezione presidenziale che si rispetti, ogni aspirante alla Casa Bianca se la deve vedere, come ricordato ieri, con i cosiddetti ‘Swing States’, gli stati in bilico, e in questa prossima tornata elettorale, per questo 5 novembre del 2024 che si affaccerà fra poche ore, quasi sono, sia per Kamala Harris e Donald Trump gli stati che possono creare più di qualche grattacapo? Al momento sono ben 7: Pennsylvania, con 19 voti che separano i due contendenti; Georgia e Carolina del Nord 16 voti; Michigan 15 voti; Arizona 11; Wisconsin 10 e Nevada 6 voti. In questi campi di battaglia, entrambi i candidati hanno tenuto più comizi proprio per cercare di distaccarsi l’uno dall’altro.

Storicamente, però, quali sono gli Stati ritenuti in bilico per antonomasia? L’Ohio, Connecticut; Indiana, New Jersey e New York. Senza dimenticare anche l’Illinois, il Texas, la Florida e il New Hampshire. Se ci avete fatto caso, questa volta, nessuno dei nove campi di battaglia dell’attuale contesa elettorale, elencati, sono considerati tra quelli in bilico. Ciò non significa che non lo possono diventare nelle prossime ore.

Tutto dipende come si sono comportati sia Trump che la Harris durante i comizi e quante volte si sono presentati per convincere i propri sostenitori per andare a votare. Ma di questo torneremo ad occuparcene domani, quando mancheranno poche ore allo spoglio finale ed entreremo, soprattutto, anche per dovere di cronaca, nel merito delle elezioni americane 2024.

Soffermiamoci, adesso, su questo fatto già ricordato in tempi non sospetti durante uno speciale, durante un piccolo reportage interamente dedicato ad un disco che fece epoca e che ha fatto epoca. Un trentatré giri che lanciò, in maniera definitiva, la carriera di un cantante che, dopo nove lunghi anni di gavetta, trovò, finalmente la sua personale consacrazione. Partiamo da alcune sue dichiarazioni in merito alla vicenda.

“Penso che ciò che sta succedendo ora è che la gente ha voglia di dimenticare. C’è stato il Vietnam, c’è stato il Watergate, c’è stato l’Iran, siamo stati sconfitti, ci hanno fatto pressione e per finire siamo stati umiliati. Penso che la gente abbia bisogno di provare sentimenti positivi nei confronti del proprio Paese. Ciò che sta accadendo ora, a mio parere, è che questo bisogno, che è una cosa bella, viene manipolato e sfruttato. Vedi la campagna elettorale di Reagan in TV: “It’s morning in America”, è mattina in America. E ti viene da dire, be’, è mattina a Pittsburgh. Non è mattina sulla 125esima Strada a New York; è mezzanotte, ed è come se ci fosse una luna nefasta in alto nel cielo. Ecco perché quando Reagan ha fatto il mio nome in New Jersey l’ho percepita come un’altra manipolazione, e ho sentito il dovere di dissociarmi dalle parole gentili del presidente”.

Tali dichiarazioni, leggermente attuali si potrebbe dire, vennero rilasciate da Bruce Springsteen nel dicembre di quel lontano 1984, al prestigioso magazine Rolling Stones, in cui spiegava, forse anche in maniera del tutto involontaria, la voglia di spensieratezza di quegli anni, precisando, in maniera molto signorile, di aver declinato con garbo l’invito dell’allora Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Ma in verità cosa successe tra i due?

Come abbiamo specificato all’inizio di questa terza parte siamo nel 1984. Anche in quell’anno, negli Stati Uniti d’America, c’erano le presidenziali. Ronald Reagan correva per un secondo mandato e, come ogni politico che si rispetti, ebbe l’intenzione, involontaria, di utilizzare, per la sua campagna elettorale, il nuovo singolo ‘Born in The Usa’. Una canzone che aveva tutto per fare leva sul patriottismo americano, almeno così pensava, perché a dispetto del titolo il brano di Springsteen diceva tutt’altro.

Diciamo che da sempre il binomio musica e politica ha sempre cercato di trovare un punto d’incontro, senza mai e poi mai, unirsi definitivamente. Gli ultimi casi in cui artisti hanno addirittura declinato in massa l’invito dell’attuale candidato repubblicano si sprecano, nel senso che l’elenco è talmente lungo che non basterebbe neanche un solo articolo; mentre dall’altro lato si potrebbe notare la stessa cosa con la candidata democratica ma, in questo caso, l’endorsement è tutto garantito da parte degli artisti.

Ritornando al Presidente Reagan e al Boss della Musica Mondiale, la canzone Born in the Usa era una critica alla maledetta guerra persa in Vietnam, una critica a come furono sprecate vite umane e, come detto, anche alcuni amici del cantante, compreso il fratello, una volta partiti per il fronte in Asia non tornarono più; semmai, sarebbe giusto precisare che tornarono in una cassa da morto. Ecco l’equivoco: il Presidente Reagan, usando quella canzone, rischiò di farsi un clamoroso autogol per la sua stessa rielezione.

Invece, vuoi anche la potenza della classe ed il ritornello ormai diventato iconico non subì un arresto o un rallentamento nella corsa del suo mandato, semmai un’accelerazione. Springsteen, dal canto suo, fu anche lusingato che il Presidente usasse la sua canzone ma, dalle parole riportate, declinò l’invito, ripetiamo, con molto garbo.

A distanza di quaranta lunghi anni sia la canzone e sia il disco è ormai contemplato come un ‘cult’ musicale. Un evergreen che ha tracciato in maniera inequivocabile gli anni ’80, donando a Springsteen oltre che la consacrazione, anche l’immortalità musicale. Qualcuno, per certi versi, potrebbe sostenere che con il passaggio della commercializzazione lo stesso Boss si sia snaturato, ma come abbiamo potuto appurare, in questi lunghi quattro decenni, non è stato proprio così.

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