C’era una volta in America: il film della vita di Sergio Leone

Da dove iniziare a parlare di C’era una volta in America? partiamo da qui, da questa semplice domanda, da questo semplice quesito che tende a scoprire l’immenso universo di Sergio Leone. Un universo sconfinato come le praterie in cui cavalcano i suoi personaggi nelle storie western. Da dove iniziare, dunque? Da quel sorriso beffardo di Robert De Niro che chiude l’esperienza cinematografica dello stesso regista, facendolo entrare nella storia del cinema, per non dire nella leggenda? Oppure partire da una semplice frase che lo stesso attore italo-americano pronuncia ad un certo punto del film?

Infatti, non l’abbiamo scritta: vi abbiamo semplicemente fatto rivedere la scena che, molto probabilmente, riassume tutto il film. Si, proprio così. Sembra assurdo. Semmai, per essere ancor più precisi: riassume tutto il passato non solo dello stesso Noodles, ma anche dello stesso Leone, il quale si è davvero dannato l’anima per raggiungere questo risultato inizialmente, per non dire anche beffardamente, non proprio apprezzato in un primo momento.

Non era dovuto tanto alla lunghezza, anche se le oltre tre ore e mezza fanno storcere il naso a molti al giorno d’oggi, quanto il taglio sconsiderato di alcune scene, di alcuni momenti, che snaturò la storia stessa. Rendendo di fatto incomprensibili i vari passaggi tra una scena e l’altra, tra una battuta e l’altra e il film, come logico che fosse, né risentì e non poco. Tornando, però, alla battuta principale, a quella frase iconica, che ha oltrepassato i confini del tempo, quella semplice e malinconica: ‘Sono andato a letto presto’ che estendiamo allo stesso regista che dal 1971 al 1984 s’immerse completamente nel lavoro di scrittura e di allestimento dei set per realizzare il suo sogno. In mezzo ci sarebbe un altro film da ricordare, ma in questo caso sorvoliamo per divagare troppo.

Per essere ancor più precisi nella prima parte di questo speciale avevamo sottolineato che dal primo all’ultimo film di Sergio Leone trascorrono venti lunghi anni. La sua vera storia cinematografica ha inizio il 12 settembre del 1964 e si chiude ufficialmente, anche se lui ancora non lo può sapere, il 28 settembre del 1984. Come detto passano il 1965, il 1966, il 1968 ed il 1971 e poi? Un vuoto assoluto, quasi ‘pneumatico’, parafrasando lo stesso regista quando descriverà una fase sconosciuta della vita del suo nuovo protagonista del suo nuovo kolossal durante una delle tante interviste che rilasciò negli ultimi anni di vita, prima della sua prematura scomparsa. Avvenuta all’età di 60 anni il 29 aprile del 1989.

Dunque, si potrebbe dire che in questo 2024 gli anniversari del grande regista sarebbero effettivamente tre, il primo infatti è datato 3 gennaio. Ma i suoi 85 anni li abbiamo già celebrati nel primo speciale suddiviso in cinque parti proprio all’inizio di quest’anno. Ma non divaghiamo e, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non lo abbiamo fatto neanche nelle parti precedenti. Anzi, vi abbiamo raccontato la storia, per sommi capi, su come il grande regista romano avesse ‘perso’ tutto quel tempo per realizzare il suo più grande capolavoro: C’era una volta in America.

Ma che cosa è in realtà questo film? che cosa abbia mai voluto dire, Leone, attraverso quelle immagini e, soprattutto, il finale medesimo cosa rappresenta? È il frutto della fantasia di Noodle, Robert De Niro, o tutto quello che ha vissuto è di fatto è reale? Dalle prime impressioni che possiamo trarre sarebbe più saggio partire non tanto dallo sviluppo dello stesso film che ha, in questi lunghi quaranta anni, riempito pagine e pagine sia di articoli di giornali quanto quelli anche di interi saggi che sono stati dedicati al tema rappresentato dall’ultimo film di Leone: quello

Sarebbe più saggio partire dalla prima domanda, cioè: che cosa è in realtà questo film? Quello che ha rappresentato ‘C’era una volta il West’, il film del 1968, ovvero un vero e proprio affresco storico in cui i personaggi si muoveva tra situazione completamente inventate con lo sfondo il periodo di ambientazione; un affresco storico per raccontare quella che un po’ è stata anche la sua infanzia, un affresco storico per mostrare il suo concetto di Stati Uniti d’America, la sua idea di ‘America’. Un affresco storico per raccontare e per mostrare al mondo quali altri tipi di storie fosse appassionato da ragazzo il regista romano.

Torniamo alla frase cardine, torniamo a quel ‘Sono andato a letto presto’ che rappresenta la solenne sconfitta di un uomo che molto probabilmente ha barato con sé stesso nella vita. Soprattutto quando al suo amico gli riferisce che vincenti si vedono solo alla partenza. E quella stessa partenza sembrava promettere comunque bene, nonostante le rovinose cadute di un ragazzo cresciuto per strada insieme ai suoi inseparabili amici.

Poi la vita è fatta di svolte, più o meno positive, e lui viene travolto dagli eventi rimanendo solo, inseguito da alcune persone che lo vogliono uccidere. Solo nel finale si scoprirà chi è quella persona. Una persona che proviene dal suo stesso passato e da cui sembrava essere avvolto per non tornare mai più; un classico schema della narrativa americana.

Durante la fase di lavorazione di questo kolossal a Leone gli venne fatto notare un qualcosa che non avrebbe mai e poi mai potuto fare con i gangster: ovvero, farli muovere al rallentatore. Nel senso usando gli stessi tempi usati per il film del 1968. Anzi, di più: facendoli muovere attraverso tempi abbondantemente dilatati. Tempi che stranamente non annoiano e non innescano feroci critiche.

Tempi supportati ed accompagnati dalle memorabili musiche del Maestro Ennio Morricone, colonne sonore che non sono entrate nella storia del cinema: semmai l’hanno scritta. Oltre alle immagini, alle particolari inquadrature, ai dialoghi, a quelle sequenze che rappresentano un perfetto misto tra poesia cinematografica e riflessioni, a quei primi piani degli occhi diventati iconici e che esaltano anche l’espressività di un personaggio la musica è, di fatto, l’elemento non tanto integrativo, non tanto complementare del suo cinema, quanto essenziale e funzionale. Si potrebbe anche definire parallelo, che ha natura propria, nonostante il collegamento al film sia naturale ed inevitabile.

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