Da Born in the Usa fino al nuovo millennio

Ieri ci eravamo fermati sul più bello con la terza parte di questo reportage. Eravamo giunti al punto in cui, con ‘Born in The Usa’, lo stesso Boss fosse meno autoriale ma più commerciale. Questa nostra affermazione, almeno in parte, deve essere meglio chiarita. Nel senso che non vogliamo assolutamente affermare o sentenziare che lo stesso cantautore americano si sia snaturato, al contrario.

Semplicemente è riuscito in quella operazione di saper unire le due anime della musica: quella più introspettiva con quella più adatta ad ogni tipo di ascoltatore, per non dire ad ogni tipo di pubblico. Non a caso l’operazione funziona e per due ordini di ragioni, anche come abbiamo ricordato nello speciale dello scorso 4 giugno.

Il primo motivo è fondato nel mantenersi fedele a sé stesso e ai tempi a lui più cari, come la classe operaia, sempre presente; continuando ad affrontare il tema dei reduci. Infatti, ‘Born in The Usa’ tratta proprio la problematica dei reduci che erano ritornati da quel maledetto conflitto. La storia è risaputa e l’abbiamo persino ricordata nell’apposito speciale di qualche mese.

Fin dalla sua diffusione nelle radio, la canzone venne scambiata equivocata come patriottica. In parte lo era, ma non nel modo in cui tutti pensavano. Anche l’allora Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan ci cascò usando il singolo per la sua campagna elettorale giusto quaranta anni fa, quindi per la sua rielezione.

Il secondo motivo è da ricercare nel successo, sempre di quel disco datato 1984, di altri brani come: Glory Days, My Hometown, Working on the highway, Downbound train, I’m going down, I’m on fire e la potentissima Dancing in the dark. Canzoni che, in un modo o nell’altro trainano il disco e si vanno a collocare nel suo repertorio storico insieme ad altri brani che abbiamo condiviso da YouTube negli appuntamenti precedenti.

Ciò vale anche per le due canzoni contemplate nel long play del 1987, ‘Tunnel of love’. Oltre al brano che, come sempre, attribuisce titolo alla raccolta di inediti, c’è anche da segnalare anche un’altra canzone che, anche e soprattutto a distanza di anni, non è mai e poi mai passata in secondo piano. Stiamo parlando dell’interessante ‘Brilliant Disguise’. Quest’ultimo disco venne pubblicato, esattamente, il 9 ottobre ovviamente del 1987.

e dopo cosa succede? Accede che il Boss per diversi motivi, almeno per quanto riguarda, si prende una lunga pausa per quanto riguarda l’uscita di nuovi dischi. Quello del 1987 è l’ultimo di quel decennio ed è tutto rinviato al 1992. Con Human Touch incomincia una nuova era, non suonando più con la band storica e con la quale tornerà anni più tardi; quasi celebrare il ventennale dell’inizio della sua carriera in via ufficiale, pubblica sempre in quel 1992 non solo uno ma bensì due long play.

Il primo lo abbiamo già citato, l’altro, invece, è ‘Luckytown’. Passeranno altri quattro anni e il Boss tornerà, tra il 1995 ed il 1996, con un album nuovamente tutto acustico, la cui canzone che, come sempre, attribuisce titolo al disco, è ispirata ad un grave fatto di cronaca che era avvenuto in quegli anni negli Stati Uniti: The Ghost of Tom Joad.

E anche dopo questo disco, dopo quest’ennesima raccolta d’inediti da promuovere, addirittura anche al Festival di San Remo del 1996, Bruce non è che scompare dalle scene, ma sembra non produrre più nulla, tranne le famose raccolte di vecchi successi, inaugurati nel 1985, raccolta successiva a Born in The Usa. tant’è che gusto venticinque anni fa pubblicare questo singolo abbastanza malinconico. Anche questo una piccola perla del suo repertorio: Sad Eyes, occhi tristi. Una ballata, forse, passata un po’ troppo inosservato.

In tutto questo, però, ci stiamo dimenticando uno dei momenti più rilevanti della sua stessa carriera: quella dei riconoscimenti che, almeno inerente all’occasione ricordata, deriva direttamente dal cinema. È l’anno 1993 e nei cinema esce un film che vuole porsi, agli occhi del pubblico mondiale, come un vero e proprio pugno allo stomaco e uno schiaffo in faccia: Philadelphia, con Tom Hanks, Antonio Banderas e Denzel Washington.

Un film epocale, un film che in pochissimi hanno il coraggio di vedere ancora, un film che presentava una colonna sonora firmata da Maria Callas, Peter Gabriel, Neil Young e Sade. E Springsteen? Si, c’era anche lui con un brano, con un singolo attraverso il quale riuscì, ancora una volta, a confermarsi sia come cantante prettamente commerciale e sia come autore impegnato su temi forti, temi difficili, appunto, da trattare e da parlare con notevole coraggio. La canzone era intitolata ‘Streets of Philadelphia’ aggiudicandosi la statuetta come miglior canzone.

Il film, ripetiamo, era del 1993, mentre l’Oscar era del 1994. Non proprio particolarmente soddisfatto che nel 1995 ci riprovò nuovamente quella che, molto probabilmente, è la più bella canzone d’amore mai realizzata in assoluto. Lo so, alle volte siamo di parte ma perdonateci; qualche volta ci può anche stare. Comunque, dicevamo che a realizzare colonne sonore, Bruce Springsteen, ci prende la mano con ‘Secret Garden’. Una canzone che diventerà la soundtrack di un altro film di successo e cult degli anni ’90: Jerry McGuire, con Tom Cruise, Reené Zellwegger e Cuba Gooding jr.

Questa volta, però, il bis della statuetta d’oro non gli riesce ed un peccato. Come non riesce più, da un bel po’ di tempo, tra l’altro, di pubblicare nuovi dischi. È come se non avesse più nulla da dire o comunque come se non riuscisse a trarre più ispirazione per raccolte di canzoni inedite. L’occasione, purtroppo, gli giunge grazie alla tragedia epocale dell’11 settembre del 2001. Quell’attentato che sconvolge tutto il mondo. d’altronde, già all’anno prima del crollo delle due torri e dell’attacco al pentagono, Springsteen, pubblicò l’ennesima raccolta trainata da un singolo abbastanza forte: Amercan Skin.

Ma, come ricordato un paio di settimane fa, è con The Rising il ritorno non è solo assicurato ma è definitivo. All’epoca, The Boss aveva tra i cinquantadue e cinquantatré anni. Con canzoni già ricordate in precedenza e soprattutto con un vecchio brano scritto negli anni ’80 diventa, in maniera definitiva, la voce degli Stati Uniti d’America.

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