Una canzone erroneamente intesa come un inno patriottico

Che cos’è ‘Born In The Usa’? un brano ed un disco patriottico o una canzone e, quindi, una raccolta d’inediti polemica verso una ferita ancora aperta dell’America? Iniziamo così questa quarta ed ultima parte di questo speciale dedicato ad uno degli album più rappresentativi del Boss. L’apriamo così non proprio in un giorno a caso: ma il 4 di luglio, giorno di festa americana. In apertura avevamo detto, in maniera indiretta, di un equivoco maturato tra il cantante stesso e l’uomo più importante della Nazione. Ma torniamo indietro di qualche anno per capire di cosa, in realtà, stiamo parlando.

Siamo sempre all’inizio degli anni ’80, il 1981 per l’esattezza. Bruce Springsteen viene contattato da un regista affinché venga incisa una canzone per il suo film, dedicato alla tragedia del Vietnam. Non a caso il titolo della canzone sarà proprio questo, almeno per un po’ di tempo. The Boss non era solamente coinvolto come semplice cittadino dal fallimento bellico in Asia, ma anche come cittadino americano che aveva perso diversi amici e, purtroppo, anche un fratello.

Per questo motivo non si tirò indietro. Il regista che lo contattò era Paul Schrader e il lungometraggio che voleva realizzare sapete, in un primo momento, come doveva chiamarsi: Born In The Usa. Saltato il progetto cinematografico a Bruce gli venne l’idea di cambiare il titolo e d’incidere la canzone per ‘Nebraska’, il suo sesto album del 1982.

Essendo, il suddetto disco, composto da canzoni incise solo con il suono della chitarra, la prima versione del singolo, quindi acustica, verrà pubblicata solamente nel 1998 nel disco ‘Tracks’. A quel punto, Springsteen la registrò nuovamente con la E-Street Band al completo senza immaginare che avrebbe sortito l’effetto che, poi, avrebbe prodotto una volta uscito il disco.

“Penso che ciò che sta succedendo ora è che la gente ha voglia di dimenticare. C’è stato il Vietnam, c’è stato il Watergate, c’è stato l’Iran, siamo stati sconfitti, ci hanno fatto pressione e per finire siamo stati umiliati. Penso che la gente abbia bisogno di provare sentimenti positivi nei confronti del proprio Paese. Ciò che sta accadendo ora, a mio parere, è che questo bisogno, che è una cosa bella, viene manipolato e sfruttato. Vedi la campagna elettorale di Reagan in TV: “It’s morning in America”, è mattina in America. E ti viene da dire, be’, è mattina a Pittsburgh. Non è mattina sulla 125esima Strada a New York; è mezzanotte, ed è come se ci fosse una luna nefasta in alto nel cielo. Ecco perché quando Reagan ha fatto il mio nome in New Jersey l’ho percepita come un’altra manipolazione, e ho sentito il dovere di dissociarmi dalle parole gentili del presidente”.

Tali dichiarazioni vennero rilasciate dallo stesso Springsteen nel dicembre di quello stesso anno, al prestigioso magazine Rolling Stones, in cui spiegava, forse anche in maniera del tutto involontaria, la voglia di spensieratezza di quegli anni, precisando, in maniera molto signorile, di aver declinato con garbo l’invito dell’allora Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Ma in verità cosa successe tra i due?

Come inteso da questi appuntamenti siamo nel 1984. In quell’anno, negli Stati Uniti d’America, c’erano le presidenziali americane. Ronald Reagan correva per un secondo mandato e, come ogni politico che si rispetti, ebbe l’intenzione, involontaria, di utilizzare, per la sua campagna elettorale, il nuovo singolo ‘Born in The Usa’. Una canzone che aveva tutto per fare leva sul patriottismo americano, almeno così pensava, perché a dispetto del titolo il brano di Springsteen diceva tutt’altro.

Era una critica alla maledetta guerra persa in Vietnam, una critica a come furono sprecate vite umane e, come detto, anche alcuni amici del cantante, compreso il fratello, una volta partiti per il fronte in Asia non tornarono più; semmai, sarebbe giusto precisare che tornarono in una cassa da morto. Ecco l’equivoco: il Presidente Reagan, usando quella canzone, rischiò di farsi un clamoroso autogol per la sua stessa rielezione.

Invece, vuoi anche la potenza della classe ed il ritornello ormai diventato iconico non subì un arresto o un rallentamento nella corsa del suo mandato, semmai un’accelerazione. Springsteen, dal canto suo, fu anche lusingato che il Presidente usasse la sua canzone ma, dalle parole riportate, declinò l’invito, ripetiamo, con molto garbo.

A distanza di quaranta lunghi anni sia la canzone e sia il disco è ormai contemplato come un ‘cult’ musicale. Un evergreen che ha tracciato in maniera inequivocabile gli anni ’80, donando a Springsteen oltre che la consacrazione, anche l’immortalità musicale. Qualcuno, per certi versi, potrebbe sostenere che con il passaggio della commercializzazione lo stesso Boss si sia snaturato. Non proprio.

Anzi, si potrebbe obiettare su questo sostenendo il contrario, attribuendo al Boss della Musica Mondiale la capacità di rimanere sé stesso seppur portando, la cosiddetta musica di nicchia, verso un territorio che, forse e senza fare paragoni scomodi e addirittura sballati, neanche il menestrello di Minneapolis riuscì a fare: Bob Dylan.

Come detto il disco uscì il 4 giugno del 1984 e vendette oltre quaranta milioni di copie: di cui quindici solamente in patria, mentre altri trenta nel resto del mondo. attenzione, però, queste cifre risalgono al 1985, quando l’albume venne sponsorizzato grazie al tour organizzato in tutto il mondo. Tra cui si ricorda una leggendaria tappa nella nostra Milano, proprio nel 1985.

Tutte le canzoni selezionate come singoli per farle circolare nelle radio portarono il cantante a piazzarsi le posizioni alte delle varie classifiche e furono in tutto 7: la stessa Born in The Usa; Cover me, Dancing in The dark; I’m on fire, Glory Days, I’m going down e My Hometown.

Eppure, semmai volessimo chiudere questo speciale con la convinzione che ‘Born in The Usa’ sia stato solamente un grosso successo finanziario per lo stesso cantante commetteremmo anche noi un grosso errore. Le considerazioni devono andare ben oltre alcune prospettive. Con questo settimo albume The Boss riuscì a coniugare musica autoriale e musica commerciale. Miscelando i temi sociali con ritmi ballabili e da distrazione senza mai e poi mai perdere non tanto l’obiettivo. Quanto senza mai perdere la sua stessa essenza naturale: di essere la voce d’America.

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