A partire dagli anni che precedono il secondo conflitto mondiale, Napoli fornisce, insomma, un contributo di assoluto rilievo – anche se spesso passato colpevolmente sotto silenzio – alla elaborazione di una linea figurativa che è indisponibile sia a sottomettersi acriticamente al dettato ‘novecentista’, sia a rendersi continuativa di una tradizione ottocentesca ormai fuori tempo massimo.

Con il giro di boa della fine della Seconda guerra mondiale e l’aprirsi del secondo Cinquantennio del ‘900, si produce un rinnovamento del sentire artistico ed emerge, in ordine alla marcatura specifica di ‘lirismo critico’, che si è aperta con la stagione d’esordio della temperie ‘chiari- sta’ negli anni ‘30, una ininterrotta processualità di sviluppo, che si può continuare ad osservare dilatata in tutto intero il paese. Può essere interessante, in tale prospettiva di dilatata continuità, porre in confronto tra loro un’opera come Merlettaie di Burano del veneziano Carlo Dalla Zorza (opera presentata alla (‘III Mostra Sindacale d’Arte Regionale’ d’Abruzzo e Molise, svoltasi a Pescara nel 1936) con una Scena popolare (dipinto incompiuto degli anni ‘50) del napoletano Ciro Pinto (1905-1975), artista eclettico, che aveva speso il suo impegno, peraltro, nello spazio tra le due guerre mondiali, sul fronte di quel ‘secondo Futurismo’, che aveva caratterizzato il decennio degli anni ’30, ed al quale egli aveva inteso dare, comunque, un contributo personale di ordine sostanzialmente lirico53.

Dopo gli artisti di cui abbiamo già dato cenno, ci soffermiamo, ora, su qualche altra figura che contribuisce a documentare in modo pieno e con- vincente la pregnanza di una temperie culturale che procede a dare corpo ad una pittura fatta di sensibilità luministica e di puri accenti di ineffabilità cromatica. Lasciamo planare la nostra attenzione, in particolare, sulla personalità di Benito Gallo, di Boscotrecase (1930) e di Angelo Iarusso di Cava de’ Tirreni (1923-1990), protagonisti di una pittura di vivida in- nocenza tonale, come possiamo osservare nel Paesaggio del primo ed in Darsena, del secondo, opera, quest’ultima, che si propone, peraltro, come interessante esemplificazione di ‘paesaggio industriale’.

Giungiamo, quindi alle personalità di due fratelli, Domenico ed Antonio De Angelis, che producono anch’essi una pittura sostanzialmente riconducibile, per gli afflati cromatici di atmosfere nebulose e ovattate, alla temperie ‘chiarista’. Non solo le compitazioni che la loro pittura presenta del tema paesaggistico, ma anche quelle, ad esempio, di ritratto, offrono testimonianza dell’indirizzo creativo che hanno scelto di perseguire in ter- mini di pacata ricerca di un’intimità discreta e silenziosa, in cui gioca un ruolo fondamentale la luce, che non è mai l’accecante solarità meridiana, ma quella spesso ovattata delle ore del mattino.

Ed è importante additare, in aggiunta, come non soltanto le opere di pittura restituiscano la consistenza di queste proprietà luministiche e d’atmosfera, ma anche alcuni loro pregevoli interventi disegnativi.

I due fratelli De Angelis hanno avuto la propria formazione nel conte- sto accademico napoletano nel periodo tra le due guerre mondiali e sono stati poi fortemente legati alla personalità di Francesco Galante, che, se non ha potuto loro fornire l’istradamento a quelle soluzioni di nebulosità opalescente che distinguono la specie ‘chiarista’, ha certamente, però, indirizzato la riflessione di entrambi alla considerazione da riservare alla resa della contestualizzazione ambientale.

“Domenico De Angelis (1904-anni ’80) ebbe le prime nozioni di pit- tura dal padre [Aronne De Angelis] e fu poi allievo di Aprea [che fu, molto probabilmente il tramite della sua conoscenza di Benedetto Croce] e Migliaro. È pittore di paesaggi e nature morte. Studioso di arte antica. La sua spiccata personalità si rivela dalle sue opere nelle quali si ritrova l’insegnamento diretto degli antichi maestri e dove il gusto tonale filtra attraverso una sensibile ricerca dell’assoluto”54.

Rispondeva, peraltro, questa sua esigenza di ricerca dell’assoluto all’empito religioso che fortemente ispirava la personale esistenza di vita di Domenico De Angelis, facendo della sua una coscienza costantemente proiettata verso un bisogno di ulteriorità psicologica e morale.

Domenico De Angelis privilegia con diffusa malia una pittura che si propone come velata d’una impermanenza nebbiosa sottile, una foschia, potremmo dire, che non sottrae luce alla scena – solitamente di paesaggio – ma giova a conferire all’opera una caratura contenutistica che dice di una innocenza dell’animo e di una mitezza del sentire, che gli facevano avversare il regime fascista muovendo da considerazioni spiritualistiche di ispirazione cristiana e non da profilature di ascendenza ideologica e politica.

Tali peculiarità contenutistiche emergono all’evidenza anche nella lettura dell’opera pittorica del fratello Antonio (1911-anni ’90), le cui atmosfere, in vero, si distinguono per una lattiginosità ovattata che ap- pare vocata alla restituzione di ‘valori’ atmosferici sentitamente modulati, manifestazione, peraltro, dell’indole pacata e mansueta che, per riconoscimento unanime, distingueva la personalità umana dell’artista. “Fin dalla tenera età si sentì attratto dall’arte che studiò e seguì basandosi sull’attento esame delle opere degli antichi maestri. La sua pittura aderente al vero è eseguita con senso di profonda osservazione ed equi- librata tecnica pittorica e coloristica. Ha preso parte a mostre regionali e nazionali”55.

Osserviamo, di questo artista, anche alcune opere rimaste incompiute, Veduta marina di Capri, Veduta di Napoli dal mare, Veduta del Cavone dei Ponti Rossi, ed esse giovano a dimostrare come non solo la stesura del pigmento avvenga su un fondo assolutamente schiarito, ma come la processualità stessa compositiva non si avvalga di un sostrato disegnativo, ma proceda creando i contenuti figurativi come semplici stesure di colore.

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