Il Chiarismo: la seconda serie di articoli per la rubrica Arti Figurative
Per tali ragioni, evidentemente, sembra non esserci effettivo spazio di azione al di fuori delle prospettive di magniloquenza ufficiale delle grandi imprese decorative degli anni del regime e, segnatamente, del decennio dei Trenta, quando trionfa la logica sironiana intesa come esuberanza ‘muralista’, nelle dimensioni, nelle proporzioni e nel segno figurativo, variamente interpretata – e non solo nella pratica dell’affresco o del mosaico – da artisti che non possono non giudicarsi di indubbio spessore come, ad esempio, Achille Funi (1890-1972) (se ne considerino le prove nella sala dell’Arengo nel Municipio di Ferrara) o Franco Girosi (1896-1987) (se ne considerino le prove all’interno della Mostra d’Oltremare di Napoli) o Anton Giuseppe Santagata (1888-1985), particolarmente ligio al regime, che detta, tra l’altro, i ‘cartoni’ per le decorazioni musive (Giulio Cesare che varca il Rubicone e il Duce alla testa degli squadristi) all’interno della Casa del Mutilato di Ravenna, ma anche gli affreschi come quello celebrativo di Antonio Locatelli del 1941 nella ‘Casa Littoria’ di Bergamo, o Pietro Barillà (1887-1953), importante personalità del ‘Sindacato’, autore degli affreschi della Stazione Marittima di Napoli, ma anche di pittura intimistica (Fanciulla, 1932).
L’altra ricerca, quella di stampo schiettamente sperimentativo – ne abbiamo appena osservato l’esempio prampoliano di Napoli – rimane, invece, circoscritta e fatta oggetto di vigile attenzione, per sterilizzarne il portato effettivo, nella specie di una misura decorativa.
Questo clima, evidentemente, non consente altro, quindi, che un ripiegamento su sé stessi degli artisti che hanno qualcosa di contesto, tutta la produzione artistica che viene giudicata, oggi, di ‘opposizione’ al regime – e che tale, in fondo, dichiaratamente ed intenzionalmente non necessariamente fu sempre – produzione artistica che, non potendo essere antesignanamente gestuale e materica, provvide a centralizzare, come in punta di piedi, la pegnanza del soggetto umano, soffermandosi sulla descrizione dei suoi affetti, delle sue intimità personali e preziose, del suo piccolo mondo, che non può non essere identificato, però, ‘anche’ nelle aspirazioni di quello stesso ‘ceto medio’ di ideali piccolo – borghesi, ministeriale e conformista, che trascinato dalle ‘di lui’ promesse e dalla di lui eloquenza retorica, idolatrava, con convinto ed incosciente entusiasmo, nel Duce del Fascismo, il proprio mentore politico.
Se potessimo dire così, la cultura artistica cosiddetta ‘di opposizione’ al regime si costruisce, quindi, come enunciazione di un punto di vista timidamente ‘diverso’, pronunciato con un ‘filo di voce’ ad opera di quella parte di ‘ceto medio’ che appare sfiduciata e scettica nei confronti delle promesse magniloquenti e pompose del regime, ma che non intende o non può e, forse, addirittura, non sa contrapporre ad esso un diverso orientamento politico e morale.
L’icona di questa parte di ceto medio scoraggiata e delusa, timidamente ‘critica’, ma, in fondo ossequiente, viene delineata in un eccellente film come Una giornata particolare, di Ettore Scola del 1977, in cui può ravvisarsi nella personalità della protagonista – una superba Sophia Loren – la figura-simbolo della moglie italiana, quella che il film descrive con molta efficacia: una donna stanca, ormai, di far da compagnia di un fascista da parata di raduno del ‘sabato’ e da madre di ‘figli della lupa’, di ‘giovani italiane’ o di avventati ‘avanguardisti’ entusiasticamente catturati dai riti collettivi di una prima importante sperimentazione di modelli comportamentali di organizzazione di massa.
Ci ritornano alla mente – nel tentativo di capire meglio qualche altro aspetto, comunque sempre domestico ed intimistico, denso di un ‘diverso’ modo di scendere in profondità a comprendere la sostanziale vacuità del tempo che si viveva allora – le immagini di un altro film di notevole interesse, che vale a ricostruire storicamente quel processo storico, come Quattro passi tra le nuvole, di Alessandro Blaseti, girato, peraltro, in limine degli anni del Fascismo, nel 1942.
È questo un film che descrive, in ciò che noi vorremmo definire una sorta di ‘chiarismo cinematografico’, un’atmosfera di disincanto morale che già prelude alla subentrante stagione neorealista, osservando il paese del lato ancora agreste della sua provincia in una sorta di confronto a distanza con la realtà metropolitana, descritta quasi in tralice.
Anche nel campo delle arti visive, la protesta ‘anti-regime’ ha queste stesse caratteristiche di opposizione intimistica e ‘tonale’, ed è con tali peculiarità che la produzione creativa contraria alla retorica di regime mette in campo la sua proposta che non si presenta mai, comunque, come espressione di aperto e frontale antagonismo politico, apparendo talvolta addirittura consentanea con le ragioni del regime, quasi che intendesse proporsi come una deriva ‘lirica’ e diafana della sua ostentata profilatura muscolare.
E mentre una opposizione creativa in termini di spigliata gestualità trova le immaginabili difficoltà di proporre il frutto delle proprie ricerche – subendo qualche esponente di tale indirizzo creativo, come De Ambrosio, a Napoli, anche un vero e proprio processo giudiziario per ragioni politiche (accusa di Comunismo) – da Nord a Sud, si affacciano, con discrezione e sottovoce, alcune istanze creative che vorremmo additare nella prospettiva accorpante di ‘sensibilità modulate’: quelle in particolare che designano le esperienze di alcuni gruppi come i ‘Chiaristi’ – i più noti operano tra Lombardia e Veneto – i cosiddetti ‘Sei di Torino’, la ‘Scuola Romana’, i ‘Quattro di Palermo’, avendo anche conto di alcune specifiche personalità, che, in modo solitario, perseguono una linea di ricerca che si offre complessivamente ammorbidita e tonale, dispersa, atomizzata, polverizzata, e tale, quindi da sterilizzare di fatto, l’urgenza di un’istanza segnica che, a volte, non solo sotterraneamente, la pervade.
Ciò avviene, ad esempio, nella pittura di Luigi Crisconio (1893 – 1946), a Napoli, che sembra comprimere l’istanza ‘espressionista’ che la ispira in una cifra soggettiva di introspezione morale e, per taluni aspetti nella pittura più matura di Ottone Rosai (1895-1957), rivolta, invece, ad una ricostruzione sfibrata di un mondo degli effetti e delle sensibilità individuali degli umili. Una pittura, vorremmo soggiungere, quella di Rosai, sostanzialmente antiborghese, di cui, non a caso, Edoardo Persico aveva promosso la prima mostra a Milano nella galleria del ‘Milione’ nel 1930.