Un lungo reportage sul regista indiscutibile Maestro del Cinema
La trilogia del tempo. Era questa l’idea che frullava nella testa del regista romano a partire dal 1967 o magari verso la fine dell’anno precedente. Si, perché ‘Il buono il brutto e il cattivo’ giunse nelle sale il 23 dicembre del 1966 e, quasi sicuramente, Leone sapeva che avrebbe avuto a che fare un’altra volta con il western, genere che voleva uccidere ma finì per rivitalizzare. Così, nemmeno tanto convinto, meno male diremmo noi, spostò il raggio d’azione non tanto nelle terre desolate, galoppate polverose e duelli iconici.
Dopo il periodo della guerra di secessione scelse, come periodo storico, l’arrivo della ferrovia e, dunque, la fine del west: così nacque: C’era una volta il west, di cui vi rimandiamo allo speciale pubblicato lo scorso 21 dicembre 2023. Era il 1968 e dopo il suo addio al genere rappresentato dai volti altrettanto iconici di Charles Bronson ed Henry Fonda dovette ancora attendere per il suo primo ed unico gangster movie.
Toccando la rivoluzione messicana con una chiave prettamente ironica, senza una buona punta di malinconia, realizzò: Giù la testa. Per il regista il titolo sarebbe dovuto essere: Giù la testa, coglione; ma tale possibilità gli fu negata. Forse era un po’ troppo per un titolo.
Sta di fatto che comunque, anche in quell’occasione, Leone riuscì a fare centro. era il quarto successo di fila, dopo che il primo dei cinque film realizzati è solo da considerare come un buon prodotto. A questo punto, vi chiederete voi, dal 1972, anno proprio dell’ultima opera cinematografica menzionata, Sergio Leone si buttò a capofitto sul romanzo del gangster? Certo che sì ma dovettero trascorrere altri dodici anni prima di vederlo al cinema.
In questo 2024, nella sostanza, ci porta diversi anniversari legati a Sergio Leone. Il primo è quello che chiaramente stiamo celebrando oggi, il secondo potrebbe essere inteso come quello relativo a ‘Per un pugno di dollari’ ed il terzo è legato a C’era una volta l’America e l’ultimo, purtroppo, il giorno della sua improvvisa scomparsa.
Ben quattro speciali, perdonateci, per quattro reportage, forse, in unico anno. Fino adesso, nella storia del nostro giornale non ha mai avuto questo merito. In fondo succede, quando si ha a che fare con la storia del cinema con la S maiuscola. Torniamo, però, alla seconda trilogia, la quale merita la stessa attenzione della prima.
Il tempo, dunque, è l’elemento essenziale. Nel tempo cosa accade, oltre al fatto che lo stesso scorre inesorabile? Che le epoche iniziano e, per consenguenza, se una inizia vuol dire un’altra è terminata. È quello che succede nelle opere del 1968 e nel 1984. Quella del 1972, invece, si pone come una sorta di liason fra le due epoche: quella del west e la sua fine; quella che dal proibizionismo al 1968, un anno spartiacque per la storia americana come abbiamo visto con i relativi anniversari pubblicati fino a qualche mese fa.
I tempi delle scene, guarda caso, si dilatano e tutti i dettagli vengono approfonditi, anche quelli più indiretti. Gli eroi di turno non sono più avventurieri e temerari. Sono cresciuti ancor più vicino alla realtà, quella che gli passa davanti, inesorabile: proprio come il tempo.
Sette film, dicevamo. Anzi, per un momento abbiamo detto quasi otto e per un semplice motivo: Gli ultimi giorni di Pompei, del 1959, non fu solo scritto da lui, ma anche diretto insieme ad un altro regista. quindi, proprio per essere fiscali, sette pellicole e mezzo, come si diceva un tempo, ed una magia interminabile a partire, comunque, dal 1964, che ha catturato tutti e, a distanza di oltre sessanta anni dalla prima volta, non finisce ancora di stupire.
L’unica cosa che ci rimane è l’amaro in bocca. Si, perché uno come Leone non se ne doveva andare a 60 anni tondi, tondi. No, poteva vivere ancora fino a 70, 80 e magari perché superare i 90 proprio come uno dei suoi allievi: lo stesso Clint Eastwood che ormai è anche lui ritenuto un maestro del cinema. Rimane il rammarico di non aver potuto vedere quello che avrebbe ideato per noi in quel film ambientato nella ex Unione Sovietica.
A differenza dei suoi altri colleghi, Sergio Leone, nel presentare un progetto o un’idea ad un produttore o magari anche per convincere un attore a parteciparvi, come fece con Henry Fonda ed Lee Van Cleef, non si limitava solamente a due parole. No, raccontava, inquadratura per inquadratura, tutto il film che aveva nella sua testa.
Un geniale, un visionario, un irripetibile Maestro di cinema. Un irripetibile rivoluzionario della macchina da presa il quale, a discapito di ogni scuola di cinematografica che si rispetti, non aveva mai e poi mai imparato i trucchi del mestiere con la frequenza di qualche corso. Il suo bagaglio professionale si era formato con la dura gavetta. Quella che oggi non esiste neanche più. non conosceva le tecniche del cinema dal punto di vista didattico.
Non gli avevano mai insegnato a muovere la macchina da presa in un certo modo. Fu lui ad apprendere quel tanto che bastava dai grandi che lo circondavano, per poi modificarlo istintivamente a suo piacimento. E funzionava. Non solo, c’è un altro dettaglio da non sottovalutare.
Molti registi si affannano a realizzare storie su storie per dire tutto e il contrario di ciò che hanno voluto dire nelle varie opere realizzate. In quei sette film e mezzo, continuando su questa scia, Sergio Leone ha praticamente detto tutto quello che voleva dire. sembrava che determinati genere cinematografici gli avesse inventati lui, visto che era capace di ‘ucciderli’ e farli ‘rinascere’ a suo piacimento.
È vero, in queste cinque parti non siamo riusciti a dire tutto. alcune cose ce le siamo conservate per le prossime volte e altre le abbiamo sorvolate un po’ perché non ci sembrava il caso, come per esempio la vita privata e crediamo che lui sia d’accordo così, e le altre perché non abbiamo trovato lo spazio. Ecco, lui riusciva a trovarlo in tutti i modi giocando con il tempo e con i personaggi. Solo che in quel 30 aprile del 1989 non gli riuscì a tenere a freno sé stesso per regalarci, ancora una volta, l’ennesima magia cinematografica, lasciando un ‘vuoto pneumatico’ in tutta la storia del cinema.