Erano pittori tedeschi e rappresentarono l’essenza della natura germanica ponendosi, con irriducibile e fredda appartenenza di gruppo, alla ricerca di un’identità che riuscisse a manifestare l’istanza di una purezza di spirito più anodina, forse, dell’accademismo che essi, comunque, ricusavano
Vengono giudicati, generalmente, degli artisti romantici, ma, di fatto, sono stati dei pittori che hanno interpretato con compiutezza d’accenti il proprio tempo, ancora fortemente intriso di opalescenze preromantiche, leggendo le pieghe di una prospettiva spiritualistica, che andava al di là delle logiche intellettuali della temperie illuministica. Sono i Nazareni, artisti che respingevano gli ansiti razionalisti, pur avendo assorbito l’intimo e sotterraneo anelito classicistico di quella stagione di cui contestavano la deriva accademica e la freddezza formalistica. È con tali caratteristiche, cui s’aggiungevano una intensa propensione verso l’età medievale ed una non meno vibrante sensibilità spiritualistica densa di vivida tensione misticheggiante, che possiamo identificare il gruppo di artisti tedeschi che finisce con l’essere riconosciuto come un manipolo di artisti romantici che giunge a Roma quasi in pellegrinaggio non per trovarvi le testimonianze della grande arte rinascimentale, ma quelle di un Medioevo vagheggiato come età di purezza.
Sono artisti che costruiscono, quindi, la raffigurazione di un Medioevo modellato non sul dato oggettivo della consistenza testimoniale della storia, ma su un immaginario figurativo che è quello che essi avevano conosciuto attraverso le stampe accademiche esemplate su una produzione figurativa sei-settecentesca, che restituivano un Medioevo idealizzato, di notevole carica identitaria corporativa. Tale visione del Medioevo, permeata di una forte sensibilità religiosa e significativamente ispirata dal pensiero di Wilhelm Heinrich Wackenroeder e dal suo Gli sfoghi del cuore di un monaco innamorato dell’arte (1797), valeva per loro come specchio della condizione di neofiti appena convertiti al cattolicesimo, ed essi formavano un gruppo di giovani artisti tedeschi aggregatosi nel contesto accademico di Vienna sotto la guida di Füger, già attivo nella Reggia di Caserta.
L’appellativo di Nazareni viene attribuito a tali artisti a motivo del loro vivere in comunità nel convento di Sant’Isidoro a Roma e, soprattutto, per il loro abbigliamento ed i lunghi capelli fluenti fin sulle spalle con scriminatura centrale; e viene attribuito, forse, da parte del popolo romano o forse da parte di Joseph Anton Koch, un artista di origini tirolesi, che aveva lungamente soggiornato in Italia, spingendosi fino a Napoli e Salerno, per poi approdare a Roma, ove mette a frutto la propria esperienza creativa di netta profilatura disegnativa e di intensa puntualità cromatica che vale a dar corpo ad una pittura di sensibilità romantica ma di impianto neoclassico.
I Nazareni – vogliamo aggiungere noi, interpretando, accogliendo ed estendendo il pensiero di Giuliano Briganti – sono romantici alla stregua di Ingres o di David e dello stesso Goya: ma non lo sono romantici sottolineiamo immediatamente, tutti questi artisti, alla stessa maniera di un Turner, di un Friedrich, di un Constable; ed, allora, occorrerà parlare di queste differenze, cominciando con l’interrogarci, ad esempio – ed intervenendo con una nostra incursione critica decisamente corsara – se non sarà più opportuno leggere, ad esempio, l’esperienza nazarena come una vicenda, per quanto cronologicamente sfalsata, parallelabile all’esperienza preraffaellita che maturò nell’Inghilterra vittoriana: una vicenda, vorremmo dire, chiusa in se stessa.
Come avverrà per i Preraffaelliti, infatti, anche i Nazareni non avranno séguito, se non nei lacerti di una cultura ottocentesca fin-de-siècle disponibile ad accogliere nel segno di un eclettismo di deriva gli stimoli esteriori e formali di un’esperienza creativa che potesse consegnare un modello di utile préalable per la dimensione simbolistica incipiente.
In tal senso, ad esempio, sarà certamente di particolare interesse osservare la linea di sviluppo di cui può marcarsi il percorso storico ottocentesco della cultura figurativa germanica di ascendenza romantica, poi progressivamente evoluta, osservando, come contributo a nostro giudizio illuminante, l’impegno creativo di un von Marèes, con la sua capacità di raccogliere in unità producente la vivezza della sensibilità creativa ‘tedesca’, affermandone – in limine dello slittamento più insopportabilmente simbolistico – la capacità, quasi epistemologica, di osservazione del mondo nella sua più variegata poliedricità.
Gli Affreschi della Stazione Zoologica di Napoli di von Marèes (del 1873) costituiscono, in proposito, un interessantissimo ed irrinunciabile caposaldo.
Ma, proprio prendendo spunto da questo episodio ‘napoletano’ di altissima cultura figurativa tedesca ospitato in Italia, dovremo osservare come anche il movimento dei Nazareni – che pure interpretano ragioni profondamente ‘nibelungiche’, per quanto condite in salsa mistico-cristiana – trovi la sua dimora elettiva nella nostra penisola, e segnatamente a Roma, ove la colonia ‘nazarena’ si stabilisce e lascia tracce notevoli all’interno di importanti complessi della città eterna, come, ad esempio, al Casino Massimo.
Erano, però, i Nazareni, a Roma, di fatto, un corpo estraneo: e come tale Roma visse non solo il rapporto con loro, stranamente infagottati nelle loro tuniche anacronistiche, ma anche con la loro arte, assolutamente incongrua per l’ambiente romano e debitrice di quel senso del ‘romantico’ che, in Germania, è piuttosto sintomo di atmosfere di ordine ossianico e di saga preromantica.
I Nazareni prediligono il Medioevo, che vivono come un’età che, comunque, essi vagheggiano pura ed irreale, chiusa ed avvolta in una nube fiabesca cui non giova a dare consistenza di rilevanza empirica ed oggettualità l’utilizzo di una gamma cromatica di distinta evidenza luministica che serve a definire una struttura linearistica di sicura evidenza dell’impianto compositvo.
Un’opera come Italia e Germania del 1828 di Friedrich Overbech dimostra con palese evidenza le particolari peculiarità di una pittura di forte e convinta calibratura compositiva, un’opera che denuncia, peraltro, tutta la carica di architettura mentale che ne presiede l’ispirazione.
Ecco, Overbech: è stata una delle personalità più in vista del movimento nazareno, un gruppo che nasce nei primissimi dell’‘800 aggregandosi come Confraternita della Lega di San Luca.
Ne facevano parte, oltre Overbech, anche Franz Pforr, Peter Cornelius, Philipp Veit, Ludwig Vogel, Wilhelm Schadow; vivevano in comunità e praticavano una scelta creativa artistica che considerava la linea da Giotto all’Angelico quella di maggiore intensità e purezza ispirativa. Agiva in loro una fede che vorremmo definire non soltanto mistica, ma, per alcuni aspetti, tanto interiorizzata e vissuta da divenire espressione piuttosto di un rigorismo formalistico che di un ansito umanamente distinto.
Tali prerogative allontanano la compagine nazarena dalla pregnanza umorale della sensibilità romantica e ne allineano il portato creativo con quelle consistenze, piuttosto, accademiche che era quanto contro cui essi stessi, i Nazareni, in fondo, avevano inteso schierarsi, non solo dai primi ansiti viennesi dei loro esordi individuali, ma anche dopo il loro trasferimento a Roma entro il primo decennio dell’‘800.
A rendere ancor più umbratile l’atmosfera che li avvolge, giunge la vicenda personale di Franz Pforr, che muore, giovanissimo, di appena venticinque anni, lui che, forse più che lo stesso Overbech, è stato il più intenso interprete delle ragioni ‘nazarene’, racchiuse nella asciutta essenzialità di una forma del tutto indisponibile al compromesso di accomodamenti e di piacevolezze di deriva.