Quella di Mario Sironi è una figura nodale nell’arte italiana del primo cinquantennio del ‘900, e merita di ricevere una valutazione critica che possa prescindere dalla prospettiva della considerazione del pregiudizio politico a suo carico, ciò che ne fa, di fatto, una figura solitaria e controversa.
Senza girarci troppo intorno, non v’è dubbio che la sensibilità personale alle logiche del regime fascista abbia costituito per Mario Sironi l’espressione di qualcosa di molto profondo, un convincimento personale della validità di ciò che egli ha inteso come una possibile ‘visione del mondo’.
Forse – e qui lanciamo, evidentemente, un azzardo critico – Sironi è stato, in ordine al Fascismo, più fascista di Mussolini stesso, fino a meritarsi, da parte del Duce, un giudizio non particolarmente lusinghiero, che poteva trovare la sua giustificazione proprio in questo dar prova, l’artista, di essere ‘più realista del re’.
La cosa merita una spiegazione ed oggi, a posteriori, sembra poter ritenersi che Sironi abbia effettivamente voluto intendere quella fascista come una efficace opportunità migliorativa del mondo. Aveva certamente torto, anche se può essere considerato giustificabile il ‘peccato’ ideologico di Sironi, non solo assolvendo l’artista nel nome della sua arte, ma soprattutto cercando di comprendere come egli abbia immaginato di poter vedere nel Fascismo la promessa che occorreva all’Italia per consentire al paese di transitare da una dimensione prettamente agricola alla nuova dimensione della modernità.
Sironi crede di poter capire che già il Futurismo aveva additato correttamente l’obiettivo, ma l’artista comprende, anche e con tempestività, che il regime fascista – che pure era sembrato accogliere con entusiasmo gli additamenti metodologici marinettiani – rimaneva, di fatto, a metà del guado nella realizzazione dei suoi disegni politici, promettendo con la sua carica apparentemente eversiva di voler cambiare tutto senza che nulla dovesse, però, ‘gattopardescamente’ cambiare.
E non discutiamo semplicemente dei modi rudi della compressione sociale e dell’azzeramento delle garanzie democratiche (questo, in fondo, con altri mezzi, lo facevano anche le cosiddette democrazie liberali) ma della prospettiva retrograda, ad esempio, della concezione di una ricerca scientifica che veniva, di fatto, appannata dalla montante tecnologica, ciò che deprivava, di fatto, il progetto culturale fascista di una sua visione di spessore, cui non poteva certamente bastare, in surroga di una concezione epistemologicamente convincente, il soccorso compiacente di una cultura ‘baguttiana’ o da ‘Strapaese’.
Sul punto, la cattiva lezione l’aveva, purtroppo, già fornita il Futurismo, che, per soffermarci su un esempio spicciolo, aveva opportunamente riservato una pur giusta considerazione al tema della velocità ma ne aveva, però, purtroppo, limitato, di fatto, l’esaltazione nei ‘limiti’ della speditezza della locomotiva ferroviaria, senza aver conto, invece, che la vera velocità di cui occorreva prendere in considerazione le prospettive significativamente emergenti era quella della luce, su cui andava indagando con altro abbrivio, evidentemente, metodologico e morale, la ricerca scientifica.
Ed era avvenuto, in tal modo, che il Futurismo lasciasse le prammatiche artistiche inchiodate, invece, al mero inseguimento (di retroguardia, quindi, e non di effettiva avanguardia) delle mere applicazioni tecnologiche, di cui, non certo avvedutamente, Marinetti amava inorgoglirsi, andando, così, a proiettare nel futuro ciò che già era appartenente, di fatto, al passato (il treno, la mitraglia ecc.).
Sironi non sappiamo se abbia compreso tutto ciò ed in che termini di consapevolezza critica; ma è un dato che al giro di boa degli anni ’20, egli è pronto per cogliere quanto di effettivamente nuovo si propone all’orizzonte in Italia: qualcosa che non punta ad inseguire un mito palesemente effimero di futuro, ma a stabilire, piuttosto, che per poter parlare efficacemente di futuro occorreva far leva sulle radici del passato più solido e significativo.
Ecco, allora, Sironi rivolgersi con fiducia ad una prospettiva di ‘ritorno all’ordine’, che egli intende come il punto ove possono trovare effettiva convergenza le prospettive più valide di effettivo rinnovamento animate dalla fertilità dell’ancoraggio ‘classicistico’ e della robustezza ‘plastica’ di una concezione dell’arte aliena dalle proiezioni di una effervescenza futurista che mostrava sempre più evidenti i suoi limiti.
Il movimento sarfattiano del ‘Novecento Italiano’ sembrerebbe poter soddisfare le sue istanze di ordine contenutistico, ma l’artista avverte presto una sorta di insufficienza a riconoscersi in una compagine non solo molto frastagliata al suo interno, ma anche disponibile – in alcuni suoi accenti ed esponenti, in particolare – a farsi discutibile megafono di propaganda piuttosto che sensibilità di avanscoperta.
Sironi compie, quindi, le sue scelte e finirà col ritrovarsi, nel tempo, sempre più solo, muovendosi la sua prospettiva creativa, nell’arco di tempo tra le due guerre mondiali, alla ricerca di un equilibrio contenutistico che mostrasse come l’arte non dovesse rendersi mero strumento di propaganda, dovendo mirare essa, piuttosto, ad additare una vera e propria prospettiva di consapevolezza morale, sapendo interpretarsi in chiave piuttosto ‘segnica’ che non derivativamente ‘simbolistica’, andando a guadagnarsi una consistenza ‘espressionistica’, forse, degna di miglior causa sul piano propriamente ideologico.
Ciò può spiegare perché, in fondo, Sironi potesse dare fastidio al Fascismo, non meno di quanto non ne potesse dare all’antifascismo (soprattutto quello postumo rispetto al regime).
E giova dire, quindi, che non si capisce – o, meglio, si fa finta di non capire – che la sua arte è il prodotto di una scelta di vita, di una concezione profonda, la manifestazione tangibile di un convincimento che vedeva nella temperie fascista il dispiegamento di una consistenza di pensiero che meritasse di essere seguito non per ciò che di esso si poteva predicare in termini di ‘mistica’ o di ‘liturgia’, ma per ciò che esso egli forse immaginava avrebbe potuto meritare come additamento di una palingenesi sociale.
Il nostro ragionamento tende a dimostrare che Sironi, in fondo, è stato tradito due volte: a suo tempo, dal Fascismo, in primis da Mussolini che non ha capito il significato di ciò che il Duce ha considerato solo come ‘piedoni e manone’ prodotte da Sironi; ed oggi, da una critica che – intendendo malaccortamente giustificarlo – intenderebbe presentare l’artista come una sorta di fascista inconsapevole, quasi possa essere considerato anch’egli una sorta di vittima della prospettiva arendtiana della ‘banalità del male’.
Sironi è stato, piuttosto, il profeta – forse non tanto involontario – del fallimento intrinseco di una ideologia che ha scelto di farsi divisiva nel paese, alimentando privilegi e separazioni sociali, avendo immaginato che sarebbe stato sufficiente adescare il consenso delle masse popolari proponendo loro le briciole del banchetto del cambiamento epocale della trasformazione radicale del paese, un cambiamento che avviene, però, solo a metà, dal momento che non saranno risanati alcuni temi ormai ancestrali dei più laceranti disequilibri sociali, in primis il divario post-risorgimentale Nord-Sud, ma, poi, anche lo squilibrio tra città e campagna, e, non meno, la difficoltà di accesso diffuso al cosiddetto ‘ascensore sociale’, col mantenimento in essere, invece, molto rigido e costipante della compartimentazione sociale irregimentata nella propaganda pervasiva di una sorta di militarizzazione di massa.
Le periferie di Sironi, le sue vedute di città, ma anche le sue vedute del mondo rurale e contadino stanno lì a testimoniare, con la loro immagine di desolante solitudine, dell’istanza – che anche lui avverte, in fondo, tradita – del cambiamento e della aspettativa di palingenesi sociale, ciò che rimane una promessa incompiuta.
Ecco, allora, che la pittura sironiana si profila come una sollecitazione sferzante e, vorremmo azzardare, addirittura come una denuncia critica, che il regime fingerà di non saper cogliere, preferendo celebrare, piuttosto, di questo artista ciò che sembrava manifestarsi epidermicamente come compiaciuta attestazione di un consenso monumentale esaltato, ad esempio, nella pratica di quella ‘pittura murale’ che avrebbe dovuto poter scavalcare il frazionismo estetizzante dell’arte da salotto a vantaggio di una stesura su vaste superfici.