La prospettiva critica che ha creato la logica del ‘capolavoro’ non sempre – anzi, quasi mai – ha saputo individuare quali opere potessero essere effettivamente degne di tale appellativo ed ha creato, anzi, prospettive decisamente negative per l’apprezzamento più autentico delle opere d’arte.
Forse nessuna parola più di quella di ‘capolavoro’ è fortemente abusata ed impropriamente adoperata: capolavoro può essere qualsiasi cosa che esca dalla valutazione di convenzionale o abitudinario e, spesso, il giudizio che si formula di ‘capolavoro’ è una valutazione che noi attribuiamo a qualcosa – a qualsiasi tipo di oggetto, di azione, di comportamento – di cui intenderemmo attestare in qualche modo l’eccezionalità.
Si comprende bene, quindi, che qualsiasi cosa può assurgere al merito di ‘capolavoro’: un autoveicolo, un arredamento, un’impresa sportiva, un gesto. E si comprende, altresì, come la sfera del ‘capolavoro’, pur proponendosi come una attestazione degna della considerazione ‘universale’, possa anche essere strettamente limitata ad una valutazione di una cosa particolare: un piatto di cucina, ad esempio, squisitamente gustoso.
Tutto ciò implica che il concetto di ‘capolavoro’ sia anche profondamente ‘soggettivo’, ma non per questo, meno ‘suggestivo’.
In realtà, proprio la relazione ‘soggettività’-‘suggestività’ è ciò che rende il ‘capolavoro’ anche qualcosa di particolarmente pericoloso, giacché induce ad un comportamento individuale che immagina di essere ‘autenticamente’‘ valutativo’ (nell’attribuire il merito di ‘capolavoro’ a qualcosa) finendo, invece, con l’essere, spesso, solo ‘soggettivamente’ ‘ripetitivo’.
Quanti, ad esempio, nel mondo delle arti visive sono (o sarebbero) in grado di fornire una risposta convincente e non deludentemente banale alla domanda perché il Giudizio di Michelangelo sia un ‘capolavoro’ o perché lo sia la Gioconda di Leonardo?
Dichiarando noi di non essere affatto in grado di giudicare le opere appena evocate come ‘capolavori’ universali – per il semplice motivo che, a nostro giudizio, nessuna opera lo è, o tutte lo sono – aggiungiamo subito di non credere di essere lontani dal vero nel sostenere che la stragrande maggioranza dei fruitori di queste opere è semplicemente suggestionata dalla fama che loro si accompagna, non avendo la più piccola convinzione personale di perché quell’opera sarebbe da considerare effettivamente un ‘capolavoro’.
In realtà, a ben guardare, tutti coloro che noi abbiamo definito ‘stragrande maggioranza’ e cui abbiamo attribuito di non saper definire cosa sia un ‘capolavoro’, se non ripetendo frasi fatte e luoghi comuni, tutte queste persone, a nostro giudizio, non hanno assolutamente torto.
Queste persone, piuttosto, con il loro non saper dare una risposta al quesito su perché, ad esempio, la Gioconda sarebbe un ‘capolavoro’ testimoniano che ‘il re è nudo’ e che, di fatto, il ‘capolavoro’ semplicemente non esiste, ma è un concetto frutto di un impegno manipolativo della coscienza sociale che viene introdotto nel convincimento diffuso per stabilire delle linee di indirizzo del gusto e per procedere ad un istradamento delle scelte d’indirizzo sociale.
La logica del ‘capolavoro’ va quindi ben interpretata e circostanziata; in proposito può essere giusto ritenere perfettamente ragionevole definire ‘capolavoro’ una stupenda portata nel corso di una cena o una splendida bottiglia di vino, provvedendo a definire, così, con la parola ‘capolavoro’, ciò che meriterebbe, piuttosto, l’appellativo di ‘capodopera’.
Ma non è giusto, invece, pretendere di attribuire la considerazione di ‘capolavoro’, come giudizio valutativo di opere d’arte, di cui si intende imporre piuttosto il feticcio simbolistico, diminuendone, in tal modo, la carica di comunicatività che ciascuna opera possiede irripetibilmente propria, in un appiattimento funzionale soltanto a logiche di potere e di mercato.
E, quando le logiche di potere e di mercato interferiscono con l’arte, sono sempre guai.
Ci piace ricordare, da ultimo, che la logica del ‘capolavoro’ fu messa fortemente in crisi dagli artisti nel corso degli anni Settanta, quando l’artista, rifiutando il ruolo di ‘vate’, seppe dichiararsi, più semplicemente, un ‘operatore estetico nel sociale’.
Oggi ritorna di moda parlare di ‘capolavoro’, con la sua logica aberrante che è frutto dei nostri tempi, tempi di azzeramento della passione partecipativa, tempi di manifesto vassallaggio culturale, tempi di violenza e di lupi.
Additava delle interessanti riflessioni, ragionando di ‘capolavoro’ e rifiutandone l’uso spesso improprio e, spesso, anche decisamente inopportuno, un importante articolo di William M. Ivins, che apriva il numero inaugurale della rivista “Arte Club” del lontano giugno-agosto del 1959.
Ivins non denunciava, come noi ora o come gli artisti degli anni Settanta, l’uso strumentale del termine di ‘capolavoro’, ma ne descriveva con grande puntualità gli aspetti evidentemente insidiosi.
La memoria storica non guasta mai e rileggere dei testi scritti negli anni passati può essere utile per illuminare il presente.
Ivins scriveva nel ’59; ed appena due anni prima, nel ’57, Congo aveva presentato una sua mostra all’Institut of Contemporary Art, ove comparivano i suoi ‘capolavori’. Ah, a proposito, Congo era una scimmia.