Un gruppo di artisti molto diversi tra loro anima la Parigi degli  anni tra i ‘20 e i ‘30, iscrivendosi nel contesto del dibattito allora in corso in Francia

Nella Parigi degli anni tra le due guerre mondiali e, segnatamente tra il ‘28 ed il ‘33 – ma le date possono essere in qualche modo dilatate – si forma, a Parigi, una sorta di comunità  di artisti italiani che finisce col farsi riconoscere come portatrice di una propria identità, una identità, che, diremo subito, è, però, piuttosto variegata e frastagliata nei suoi tratti distintivi.

Viene riconosciuta questa comunità di artisti – ma il termine ‘comunità’ è sostanzialmente improprio – dapprima, con un certo fastidio da parte dell’ambiente parigino: non vengono riservati loro particolari apprezzamenti dell’impegno creativo ed essi vengono considerati come espressione di un certo meticciato.

M. Tozzi, Contadini, 1921

Sono evidentemente passati i tempi di Boldini o di De Nittis, artisti che avevano saputo conquistare il pubblico parigino proponendosi, in qualche modo, dichiaratamente sinergici rispetto alle forze in campo nella capitale d’oltralpe: gli Italiani che si presentano sulla scena della ville lumière in questi anni di fine decennio dei ‘20 (ma alcuni di loro risiedono a Parigi già da moltissimo tempo) intendono suggerire delle soluzioni creative che non si propongono di grande interesse: innanzitutto, forse, poiché sono profondamente disomogenee, poi perché vengono percepite come una sorta di ripresa di nostalgie classicistiche, sostanzialmente refluite in un contesto che aveva ancora in mente il clima delle Avanguardie o, di contro, gli esiti in qualche modo malconci, della stagione della Belle époque.

I Francesi intendono che gli Italiens vogliano dare loro lezione e non possono tollerare questa cosa, anche perché essi stessi, in fondo, non esprimono un livello di ricerca che, al di là del clamore che il mercato sa riservare alle loro imprese, dia testimonianza di un impegno creativo di forte e robusta consistenza contenutistica.

M. Campigli, Le donne dei marinai, 1934

La stessa caratura ‘espressionistica’ dei Fauves era andata mostrando, talvolta, dei cedimenti evidenti alla logica simbolistica, proprio quella, in particolare, contro i cui intendimenti una prospettiva nettamente e dichiaratamente espressionistica doveva saper insorgere.

Osserviamo, quindi, che questo gruppo di artisti, gli Italiens – sono sette, per la precisione – suggeriscono proposte creative che si presentano, nella loro varietà, di area metafisica, tardofuturista, paraespressionistica, secondo che prendiamo in esame i nomi dei protagonisti De Chirico, Campigli, Tozzi, Severini, De Pisis, Savinio, Paresce.

Qualcosa, però, sotterraneamente li unisce tutti questi Italiens: una sorta di impermanenza ‘simbolistica’ in chiave italiana, peraltro, che è quanto può leggersi, ad esempio, al di sotto della atmosfera d’assenza che interpreta De Chirico o delle derive tardofuturiste di Severini, per non dire di quelle di dilavata pulviscolarità materica di De Pisis. Più significativamente robuste erano le cose di Tozzi e di Paresce, di carattere più marcatamente intellettuale quelle di Campigli, decisamente sofferte quelle di Savinio.

R. Paresce, Il Castello

Questi artisti intendevano proporre un rinnovamento che avrebbe potuto trarre fondamento dall’ancoraggio a ragioni ‘valoplastiche’, ma poi, pur intendendo aggirare anche l’ostacolo del ‘Novecentismo’ (al quale, tuttavia, talvolta cedono), non riescono ad attingere quella vitalità morale che, intanto, in Italia andavano maturando altre proposte creative ispirate da deciso impegno contenutistico e morale, come quelle formulate dai Chiaristi, dai Sei di Torino, dai Quattro di Palermo, dalla Scuola di via Cavour, dall’UDA e dai Circumvisionisti.

Les Italiens de Paris guardano al successo, provano a diventare la voce dell’arte italiana che si espande nel mondo, mirando ad un accreditamento che non richiede neppure l’adeguamento alle ‘mistiche’ di regime e che può giovarsi di una certa libertà di manovra – non distonica, per certi versi al dettato stesso del Sindacato fascista – al cui interno il gruppo italiano va ad operare per stabilire con la Parigi dell’arte che conta un rapporto che sia di accettazione di una proposta che viene da un’Italia di cui occorre ad ogni costo sfatare la leggenda di ambiente provinciale. La stessa varietà disfratta dell’intero gruppo degli Italiens, a questo punto, non viene contraria, ma favorevole a questo non codificato disegno.

Tutto questo, quindi, questo modo d’essere degli Italiens, messo insieme, come abbiamo cercato di dimostrare, non costituisce un ‘movimento’; ed è, piuttosto, solo un raggruppamento che ha, però, la capacità di farsi riconoscere, anche perché le personalità che lo compongono assumono, in fondo, una propria caratterizzazione referenziale che rende quella degli artisti italiani, in qualche modo, una  voce che, complessivamente, può appagare, contemporaneamente, non soltanto le istanze di quanti, al di fuori dell’Italia, guardavano con sospetto all’Italia fascista, ma anche quelle di chi, dall’interno della penisola, poteva vedere in questi artisti una utile proiezione esterna del paese.

Certamente, in tale prospettiva interna dell’Italia fascista, occorrerà aver conto dell’indirizzo culturale che si definirà ancor meglio, in prosieguo del decennio dei ‘30, nel confronto serrato tra la visione antagonistica di Bottai e di Farinacci.

G. De Chirico, L’enigma dell’ora, 1911

Curiosamente, proprio la grande varietà interna degli Italiens, che sarebbe dovuta essere un motivo di impedimento per una cementazione interna del gruppo, finisce con l’essere un motivo non ostativo rispetto al sentire del regime, che, comprende bene, non solo con la visione più aperta di Bottai, ma anche con quella più ‘interessata’ di Mussolini, che, in fondo, non sarebbe particolarmente giovevole al regime legare la propria immagine ad una determinazione creativa ‘stilisticamente’ irrigidita.

In fondo, l’aver inteso Mussolini allentare la sensibilità ‘novecentista-sarfattiana’ del regime nasce proprio da questo convincimento del Duce, che intuisce la positività di una visione multicentrica degli orientamenti artistici, provvedendo, in qualche modo, ad anticipare, ma a contrariis, quella scelta sciagurata che porterà, più tardi, nel ‘37, il Nazismo ad inaugurare la politica dell’Arte degenerata (Entartete Kunst) col seguito che essa ebbe di devastazione iconoclastica.

Ma gli Italiani a Parigi cosa producono? De Chirico, dapprincipio, non è d’accordo su nulla, convinto com’è che sono solo due gli artisti italiani che contano: lui stesso, ovviamente, e Modigliani.

In realtà, ciò che propongono gli ‘Italiani di Parigi’ è una pittura che si colloca in una fascia produttiva di incerta prospettiva ‘stilistica’, dimostrando, di fatto, essi, di essere espressione di un clima culturale fondamentalmente tardo o post simbolistico. Tale clima, in particolare, era  quello che aveva prodotto un riavvolgimento su se stesso delle prospettive d’indirizzo creativo dell’universo artistico parigino, non consentendo anche a quelle che sarebbero potute essere le sue voci più significative – pensiamo qui non solo ai Fauves – di esplicitare con pienezza di intendimento quella svolta segnica che era stata prodotta dagli Espressionisti tedeschi e che avrebbe trovato un diverso modo di porsi – ma non meno imprimente – anche nelle declinazioni contenutisticamente dirimenti della Neue Sachlickeit.

Nulla, insomma, che potesse essere, in Francia, qualcosa di simile alla pittura di un Dix, di un Grosz, di una Kollwitz e nemmeno di uno Schad o di un Grossberg e, curiosamente, nemmeno di uno Schrimpf che, entro la compagine dei tedeschi, è quello con cui gli Italiens de Paris, avrebbero avuto maggiori ragioni di avvertire una prossimità logica e sintattica, vista la sua sensibilità verso il mondo non solo dell’arte italiana cosiddetta ‘classica’, ma della sua stessa modalità espressiva caratterizzata da volumi avvolgenti e da una propensione alla vibratilità contenutistica.

La Francia è ancora, tutto sommato, quella di Dérain o di Chagall, di Matisse o di Dufy, un paese che sa farsi forte, artisticamente, delle sue ragioni di ancoraggio alle grandi ragioni impressionistiche, ma che, intanto, ha scelto di assumere la deriva tardosimbolistica, provvedendo a virarne le ragioni, spesso inaccettabilmente ‘decorative’, in un tentativo – a nostro giudizio debole – di chiudere la forza delle idee nella sintesi di un individualismo forse bisognevole di miglior causa.

Ma ritorniamo al raggruppamento degli Italiens: osserveremo, tra tutte, a nostro giudizio, qualitativamente  preminente, la figura di Renato Paresce, che a noi sembra il più convincente tra gli Italiani di Parigi, quello dotato di più ampio slargamento di prospettiva culturale, così come Campigli, d’altronde ed anche Tozzi, mentre De Pisis si rivela più ripiegato su se stesso e De Chirico enfaticamente convinto di quella che dovrebbe essere, secondo lui, la straordinaria novità delle sue atmosfere ‘metafisiche’ che, invece, a guardar bene, trovano una più intensa carica di approfondimento psicologico e morale nella pittura di Campigli. Savinio è una sorta di caso a sé, un artista che, per certi aspetti, sembra essere senza patria.

Siamo assolutamente consapevoli di essere, in qualche modo, fuori della ‘vulgata’ celebrativa di questo mondo e di questi artisti, personalità, certamente, oggi supercelebrate, personalità interessanti, indubbiamente, ma non tali da costituire un punto di riferimento per la ricerca innovativa che matura le sue più significative ragioni, più o meno in questi stessi anni e, proprio in terra di Francia, con quegli artisti che si definiranno, di qui a poco, come ‘Jeunes Peintres de la tradition française’.

Gli Italiens rimangono, invece, chiusi  nella specificità intellettuale di un mondo significativamente debitore delle atmosfere ‘decadenti’, oltre che ‘decadentistiche’, di cui interpretano le ragioni sotterranee, che sono quelle del rimpianto e della nostalgia di un mondo che va inesorabilmente declinando e di cui questi artisti – ma qui diciamo non soltanto gli ‘Italiens’, ma anche tutta intera quella che viene definita la ‘Scuola di Parigi’ – costituiscono l’estrema scansione.

(Le immagini che corredano questo testo sono tratte dalla Rete e da fonti di pubblico prelievo e se ne ringraziano gli Autori. L’utilizzo qui fornito ha motivazioni di documentazione culturale e prescinde da interessi di ordine economico o promozionale)

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