La solitudine come cifra della cosiddetta libertà
Il Realismo è senz’altro la misura d’intervento creativo più significativa – ed anche dirimente – che si propone come cifra distintiva della pratica artistica negli Stati Uniti d’America durante tutto il secolo del ‘900.
Qui, in particolare, si potrà obiettare, è nata, in fondo, nel 1913, la mostra dell’Armory Show, dove si afferma la proposta duchampiana dell’ ‘Arte Concettuale’, che costituisce senz’altro la qualificazione decisamente caratterizzante dell’arte del secolo breve. Ed allora, come giustificare la prospettiva valutativa del Realismo come condizione dirimente dell’arte nordamericana?
Potremmo invocare, come risposta a tale domanda, la continuità con la tradizione ‘realistica’ ottocentesca, ma tale argomento sarebbe certamente poco convincente; ed allora gioverà, piuttosto, riferirsi allo spirito pragmatico di questa ‘nazione’ americana fatta, tutto sommato, di pionieri di variegata provenienza di origine, per convincersi che la consistenza oggettiva di un richiamo identitario ‘realistico’ può risiedere ‘ancora’ nel corso del ‘900 – come era già stato verificabile nelle tempestive premonizioni ottocentesche della ‘Hudson River School’ – nella referenza paesaggistica, che non costituisce un mero rifugio romantico dell’artista, ma lo specchiamento di un popolo ‘senza storia’, che, nel territorio, scopre le ragioni primarie del proprio possibile nuovo radicamento.
Ovviamente, dai tempi della ‘Hudson’, passando per le tappe successive, fino a giungere ai tempi della ‘Ashcan’ e, poi, della temperie legata agli anni del ‘FAP’ (Federal Art Project), la concezione specifica del rapporto col territorio evolve in modo significativo e decisivo.
Nel 1915, Edgar Lee Masters, ad esempio, pubblica la Antologia di Spoon River, ed emerge, con quest’opera poetica, la datità oggettiva del ‘ventre molle’ americano, quello degli stati centrali, caratterizzati da un forte convincimento pionieristico, in cui si radica la prima e significativa manifestazione della consistenza identitaria statunitense, che trova proprio nella mentalità conservatrice e, per molti aspetti, provinciale degli stati tra le due coste, la propria forza effettiva di peculiarità ‘nazionale’, che non può essere osservata, invece. nella realtà cosmopolita ed europeizzante delle grandi conurbazioni soprattutto della costa atlantica.
E. Hopper, Aspetti della solitudine, 1927
La pittura ottocentesca aveva colto con largo anticipo questi dati ed aveva dato loro una consistenza significativa e pregnante con le varie ‘scuole’ di cui abbiamo già dato cenno, ma occorreva fare qualcosa di più, qualcosa, insomma che riuscisse ad unificare, se così possiamo dire, la prospettiva del ‘provincialismo’ centrale con quella del ‘cosmopolitismo’ delle coste (soprattutto di quella atlantica).
L’operazione non era di poco spessore: essa imponeva, infatti, di raccogliere in una prospettiva unitaria l’immagine del paese: quello delle grandi praterie, dei deserti, ma anche quello dell’urbanizzazione incalzante delle grandi metropoli.
Occorreva spostare l’obiettivo dal ‘paesaggio’ al protagonista umano di quello che si profilava come l’American Dream.
L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters addita la via in modo asciutto ed essenziale e suggerisce due indicatori fondamentali: la centralità del soggetto umano e la dimensione della solitudine.
Cosa c’è di più solitario di una sepoltura? Ed, infatti, l’Antologia di Spoon River non è altro che una raccolta di storie di morti che raccontano, attraverso le loro singole personalità, la storia della comunità di appartenenza.
R. Kent, Aspetti della solitudine, 1929
Questo è il dato saliente: Edgar Lee Masters spiega agli Americani che devono prendere a specchiarsi nella loro storia, una storia che, in un modo o nell’altro, essi cominciano a costruire e, forse, non è affatto casuale che le radici della memoria storica statunitense che, in fondo, la Antologia di Spoon River avvia, riposino proprio nella consistenza più imprimentemente stratificata e sedimentata dello spirito pionieristico.
Dicevamo che, però, la Antologia mette in rilievo anche il dato della solitudine. E lungo tale emergenza esistenziale sarà, poi, Edward Hopper, che nasce nello stato di New York, a comprendere che la solitudine è una condizione che appartiene non soltanto alle vite di quanti abitano le grandi praterie centrali, ma anche le città della costa, dal momento che la solitudine è una condizione umana variamente vissuta secondo i diversi contesti ambientali e secondo le più disparate emergenze psicologiche ed esistenziali.
Ecco, quindi, che la pittura di Hopper (che si riannoda solo superficialmente alla analisi delle consistenze urbanizzate che rende la ‘Ashcan School’, di cui, quindi, non va a raccogliere il messaggio ‘politico’, come saprà fare, invece, Rockwell Kent) si rende capace di farsi interprete della realtà metropolitana ed industriale, leggendone il lato ‘liberale’ come via di affermazione del successo del ‘modello americano’; ed Hopper sceglie, quindi, di praticare, come mezzo rivelativo, una pittura che è di straordinaria caratura realistica, senza avere nulla più della consistenza del realismo tardottocentesco, variamente articolato nelle componenti romantiche, naturalistiche, impressionistiche o di ispirazione ‘sociale’.
Il realismo di Hopper si dirige a recuperare, se così possiamo continuare a dire ed argomentare, piuttosto lo spirito di Homer, che non di Sargent o di Henri: e tutto ciò non è casuale, giacché, dei tre, il primo è, senz’altro, un artista che si indirizzava a cercare di ‘capire’ l’America, mentre il secondo sembrava rivolto, piuttosto, a far capire l’Europa agli Americani e viceversa, ed il terzo ad avviare una riflessione degli Americani su se stessi.
Ci si può chiedere se quella di Hopper sia una pittura totalmente isolata, un’esperienza singolare, sganciata da qualsiasi riferibilità o consonanza metodologica e stilistica.
E certamente è possibile affermare che la pittura di Hopper – ma anche quella di Sheeler, di Kent o di Bellows, ad esempio – è capace, in particolare, di instaurare un rapporto con le logiche figurative europee: con quelle, ad esempio, del ‘Ritorno all’Ordine’, innanzitutto; e, non meno significativamente, con quelle della ‘Nuova Oggettività’, non mancando di manifestare prossimità di vedute con quelle stesse delibazioni di matrice sovietica che non sono propriamente il ‘Realismo socialista’ e che si intitolano dell’intervento creativo, ad esempio, della straordinaria personalità ‘leninista’ di Alexandr Deineka.
Alla stregua di tali considerazioni, possiamo, quindi, dire che le personalità di Hopper – e quella stessa di Kent – non sono isolate ed appartengono ad un contesto culturale di cui, negli stessi USA, si propongono altre ‘variazioni’ di non trascurabile valenza, come quella, ad esempio, del Precisionismo, nel cui ambito ricorderemo almeno la personalità di Sheeler o come quella di più intensa prospettiva ‘massimalista’, di cui si fa portatore, ad esempio, George Bellows, legato, comunque, alle tematiche ‘sociali’ della ‘Ashcan’.
G. Bellows, Scavi in Pennsilvania, 1907
Un approfondimento di analisi merita senz’altro la pittura di scarna oggettività e di asciutto realismo, scevra da derive decorativistiche o da compiacimenti formali, di Rockwell Kent, che suggerisce un approccio alla realtà fenomenica assolutamente consentaneo alle dinamiche di Hopper e significativamente orientato, per certi aspetti, ad esaltare ed esasperare la capacità di analisi del tema della solitudine, ottenendo ai suoi lavori una nitida profilatura di nette scansioni volumetriche.
G. Segal, Incontro di solitudini, 1989
Ci si può domandare se la pittura di questi artisti non abbia una sua carica ‘ideologica’: e, certamente, secondo noi ce l’ha, una carica ideologica che può leggersi come indicativa – evidentemente qui ci riferiamo ad Hopper, per certi aspetti anche a Sheeler – di quella concezione tipica degli Americani di un culto spasmodico della libertà, un culto che ha lasciato tracimare l’idea stessa di libertà come condizione della coscienza in mera estrinsecazione d’una idealizzazione del poter fare, del poter fare qualsiasi cosa: una estrema scansione della prospettiva pionieristica di cui, in fondo, come comunità, non si sono mai liberati. E, non a caso, presto la concezione della libertà come condizione spirituale sarebbe diventata manifestazione di scelte politiche di stampo ideologico marcatamente liberale.
Hopper e Kent sono autori profondamente simili nelle determinazioni stilistiche, meno, invece, nelle sensibilità psicologiche e ‘sociali’ che costituiscono il punto di ancoraggio delle loro determinazioni creative: non a caso, Kent, che politicamente, così come Bellows, diverge sensibilmente da Hopper, negli anni del ‘maccartismo’ fu fatto oggetto di interventi decisamente ostili.
Potremmo ancora chiederci quale sarà l’eredità che lasciano tali autori: Hopper, Kent, Sheeler, Bellows: quella eredità che promana dalle prospettive – poco importa se di declinazioni figurative metropolitane o rurali – delle grandi solitudini: solitudini che sono delle persone come delle cose, solitudini notturne o solitudini di giornate intensamente luminose e solatie.
Forse, una risposta convincente a tale domanda può essere quella di poter ritrovare echi della sensibilità ‘realistica’ di Hopper e dello stesso Kent, anche nelle dinamiche ‘pop’, in quelle prospettive ritrattistiche, ad esempio, che ci restituiscono i volti che Warhol va a spalmare su anonimi sfondi monocromi, e che ci propongono anche i suoi oggetti che si rivelano come una sorta di immagini trascendentali (come il sogno utopico del liberalismo di cui si rendono icone), immagini che sono quasi irraggiungibili ed eteree, pur nella loro oggettiva usualità moltiplicata e commercialmente debordante, come una lattina di ‘Coca-Cola’ o come il recipiente di latta che insacatola una qualsiasi zuppa industrialmente prodotta.
L’approdo, però, di tutto il percorso avviato da Hopper, non può essere semplicemente quello della delibazione ‘pop’ di Warhol (ma potremmo anche aggiungere di Lichtenstein, e non cambierebbe granché) e dobbiamo rivolgere la nostra attenzione anche altrove, individuando, in particolare, in tutta la temperie cosiddetta ‘iperrealista’ che fiorisce in modo pieno e maturo intorno agli anni ‘60, il punto apicale della lezione di Hopper, sviluppata, peraltro, con una sorta di sussiegoso rispetto di quei due aspetti fondamentali che il Realismo americano ha preso ad interpretare e che sono, come già detto, sia la centralità ormai ‘storica’ del cittadino americano, che la condizione della solitudine che coinvolge uomini e cose.
Se l’Iperrealismo può essere considerato come l’estrema scansione delle peculiarità distintive del Realismo di Hopper, può essere utile interrogarsi se, in posizione mediana e di tramite, possiamo trovare anche qualcos’altro. L’interrogativo non è affatto ozioso e ciò che si presenta, allora, alla nostra attenzione è tutto l’aperto orizzonte verso cui lasciano spaziare lo sguardo le peculiarità distintive dell’impegno creativo di artisti come George Segal o Mel Ramos, che, con accenti e sensibilità molto diverse, intervengono, però, a dotare le proprie creazioni di uno spirito, almeno di intendimento, latamente ‘espressionistico’.
Occorre subito dire che si tratta di un ‘espressionismo’ assolutamente sui generis, non confrontabile con quello della grande stagione tedesca del primo ‘900, ma che, a suo modo, vale a conferire alla carica di ‘solitudine’ inaugurata con grande consapevolezza da Hopper, un suo status di più ampia e diffusa accettabilità, capace di farsi specchiamento di una condizione umana e, soprattutto, di calarsi nel vivo della quotidianità esistenziale, agendo, in fondo, più che da rivelazione alla coscienza (di questo era stato capace Hopper) come intervento di sterilizzazione compiaciuta e gaudente delle problematiche e delle ansie, con un’azione che potremmo anche definire di benevola narcotizzazione di massa.
Cosa, d’altronde, di più intrigantemente narcotizzante di una ‘pin-up’ di Mel Ramos, appunto?