Uscì nelle sale pochi mesi dopo alla sua scomparsa avvenuta nel 1966
Negli anni Sessanta gli Stati Uniti erano in pieno boom economico: la cultura americana, ancora legata ai suoi ideali di ricchezza materiale e produttività, accresceva la tendenza a un consumismo sempre più spinto, che preparava il terreno alle opposizioni e alle battaglie del Sessantotto.
La Walt Disney Corporation era parte integrante di questo processo di diffusone dell’etica del consumismo, in tutto il mondo: già a partire dagli anni Cinquanta la compagnia aveva assunto una strategia di mercato che alla produzione dei film affiancava la massiccia promozione di gadgets legati ai suoi film.
Negli anni Sessanta la Disney era oramai divenuta, accanto a un’immagine di custode dei valori familiari e dell’infanzia, un vero e proprio marchio di fabbrica. Già a metà degli anni Sessanta, quando il film venne prodotto, cominciavano a manifestarsi le prime contraddizioni idealistiche a queste tendenze. La giungla, in questo distante contesto esotico in cui la separazione fra uomo e animale diventa minima, fu forse una arena di discussione protetta per le questioni legate allo sviluppo e al consumismo.
Uno degli spunti più interessanti è forse il concetto di “figlio della natura”, che sarà ripreso anche nel suo corrispondente africano del 1999, Tarzan. A partire dalla fine del Settecento, l’idea del “buon selvaggio”, un uomo cresciuto fuori dal mondo civilizzato, ha affascinato il mondo occidentale.
Il tono del film d’animazione Il libro della giungla (1967) è giocoso e non filosofico, ma il problema principale di Mowgli è sopravvivere a “casa” sua nella natura. Il concetto è introdotto già dalle prime scene, quando la ripresa scende lungo il corso di un fiume, mostrando una barca fracassata con un bambino indifeso avvolto in fasce nella sua cesta, adottato da una famiglia di lupi, e vissuto e cresciuto per i suoi primi anni nella giungla.
Quando però giunge ai lupi la notizia che Shere Khan, una tigre feroce che da sempre odia l’uomo, è tornata nella giungla, il branco è costretto ad allontanarlo per la sua incolumità. La pantera Baghera si offre di condurlo al più vicino villaggio, e da qui inizia il viaggio di Mowgli attraverso la giungla; un viaggio che lui non vorrebbe assolutamente fare, che si rivela pieno di insidie.
Nonostante la protezione di Baghera e dell’orso Baloo, Mowgli finisce per scontrarsi comunque con Shere Khan, riuscendo però a metterla in fuga. La sua esistenza nella giungla non ha più ragione di essergli preclusa, ma è ora l’istinto ad avere la meglio: il ragazzino incontra una sua coetanea al fiume e, naturalmente attratto e incuriosito, la segue e si fa condurre nel villaggio.
Si tratta, per molti versi, di un film decisamente atipico nel panorama di quegli anni: pur essendo tratto da un classico della letteratura per bambini, l’omonimo romanzo di Kipling, l’India che vi è raffigurata è molto diversa sia dal mondo occidentale che dagli scenari fantastici di film come Alice nel Paese delle Meraviglie o Winnie The Pooh. Whitley compie un confronto serrato fra il film e il romanzo di Kipling.
Uno degli aspetti che distingue il film dal romanzo di Kipling è lo spazio narrativo, mentre il testo letterario contiene specifici riferimenti geografici, che hanno la funzione di creare coscienza e memoria del lettore, Disney sceglie di collocare la sua storia in uno spazio generico, indefinito.
Dialoghi enfatizzati nel film, ad esempio, il personaggio di Bagheera, un misto di paternalismo, esasperazione e convinzione che Mowgli non potrà mai sopravvivere nella giungla da solo, la giungla di Kipling è la dominanza fra specie che si contendono il potere. La rappresentazione cinematografica sembra rispecchiare questa realtà: il paesaggio non è mai fisso, ma in continuo e fluido movimento, soggetto a rapidi cambi di prospettiva.
Momenti di tensione drammatica nel film, quando Mowgli viene aggredito dal pitone Kaa o preso in ostaggio dalle scimmie, e ha il suo culmine nello scontro fra Mowgli e Shere Khan. Poco prima della disputa con Shere Kahn, il paesaggio si fa scuro, arido e brullo, popolato di avvoltoi; dopo la vittoria del ragazzino sulla tigre, però, il paesaggio torna luminoso e lussureggiante.
Più che per definire la maggiore capacità di adattamento degli animali, la vicenda di Mowgli sembra più esplorare la nozione di dipendenza del bambino dall’adulto, in un lento processo di maturazione verso l’età adulta. L’insieme di mentori e aggressori che il ragazzino incontra nel suo viaggio sono una fonte continua di apprendimento derivato dall’imitazione.
Esemplificativa è la scena della marcia militare, in cui Mowgli cerca di imitare posizioni, movimenti ed espressioni di un plotone di elefanti, che a loro volta, imitano comicamente una pattuglia militare umana. Ma seguire i gesti degli altri animali non sono per Mowgli che goffi tentativi per sentirsi parte di un “”mondo”.
Un continuo desiderio d’intimità e vicinanza con gli animali, che viene per contro contrastata da Bagheera, che ribadisce più volte l’estraneità del ragazzo da quel mondo e l’impossibilità di farne parte «Tu non sposeresti una pantera, no?» dice a Baloo per convincerlo di come quello di poter tenere il cucciolo d’uomo con sé sia una sciocchezza. Bagheera saggia e prudente accusa Baloo di essere uno “stupido irresponsabile fannullone, ma la figura dell’orso è simbolo di semplicità di valori e libertà.
Baloo propone al cucciolo d’uomo è una vita spensierata, in cui il poco di cui abbiamo veramente bisogno è a portata di mano, senza affanni. Un “modus vivendi” molto simile a quello che vedremo riproposta, nel 1994, in Il re leone, al piccolo cucciolo di leone fuggito nella giungla.
La canzone The bare necessities, però, a differenza della celebre Hakuna Matata, non è solo un inno a una vita senza preoccupazioni: è la celebrazione gioiosa di un mondo florido che dispensa generosamente la sua abbondanza, un invito a vivere una vita semplice, senza eccessive pretese, perché per essere felici basta davvero poco. Un invito, forse, ad abbandonare la frenesia del consumismo verso un’esistenza che privilegi la semplicità dell’essenziale e delle piccole gioie quotidiane.