Cinquantanove anni fa il discorso leggendario che cambiò per sempre l’America
Ci sono parole che rimangono. Indimenticabili, incastonate nel tempo come pietre miliari e come punti di riferimento dalle quali non si può prescindere e neanche transigere. Ci sono parole che ascoltarle a distanza di quasi sessanta anni ci si rende conto di come, un tempo, si era ancora più avanti di oggi. Di come c’erano alcune lotte da portare avanti e di come sussisteva l’obbligo morale di portarle avanti anche nel rispetto del proprio avversario. Anche nei confronti di coloro, ritenuti avversari, quelle parole rappresentavano o fungevano come mano tesa con la speranza di costruire un mondo migliore.
Un mondo in cui i pregiudizi stessi, quelli che rovinano ancora oggi i rapporti tra essere umani, venivano combattuti con un equilibrio che tendeva ad armonizzare i rapporti e non a dividere ulteriormente. Il 28 agosto del 1963, in una calda mattinata nella capitale americana qualcuno, davanti ad una folla oceanica, espresse tre parole che formarono un pensiero, un must; tre parole che rappresentavano, allo stesso tempo, più di una semplice speranza, non pervasa da contorni di utopia, ma di un qualcosa che si poteva realizzare in concreto con il tempo
Quel qualcuno, con dietro la grande statura del liberatore degli schiavi, nonché Presidente degli Stati Uniti, Abraham Lincoln, disse: I have dream, tradotto: io ho un sogno. Una frase che diventò il titolo del più celebre discorso che la storia ricordi. Un discorso intriso di speranza, di compassione verso il prossimo, di amore e non di odio.
Quelle parole, pronunciate dal Reverendo Martin Luther King, il quale l’anno successivo sarà insignito del premio Nobel per la pace, proseguirono con un semplice augurio non solo per sé stesso: “un giorno, proprio là nell’Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano i bambini bianchi e le bambine bianchi come fratelli e sorelle” e ancora: “che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per ciò che la loro persona contiene. Io ho un sogno, oggi!”
Parole che in questo giornale, anche quando era un semplice blog, sono sempre state ricordate e commentate non senza una punta di malinconia per i tempi che corrono oggi. La lotta per i diritti civili negli Stati Uniti d’America è stata funestata da grandi lutti, da gravi perdite. Come quella ricordata, qualche anno fa, di Medgar Evers, la cui vicenda venne ricordata in un famoso film del 1994: L’agguato.
Ma è stata anche contrassegnata da grandi vittorie, come a partire dalla sentenza del 1954 per permettere di abolire la segregazione razziale nelle scuole. Semmai, quello, fu il primo passo in avanti. Niente, però, a quello di cui poi fu artefice il Pastore Protestante Martin Luther King.
Un uomo, prima che essere uno uomo di Dio, che prima di diventare ciò che la storia ci ricordava, quando era giovane, aveva persino odiato il suo nemico rappresentato dai bianchi. Questo particolare, questo dettaglio, non da poco, è praticamente messo per iscritto da egli stesso nella sua biografica curata da Calyborne Carson.
Ciò che vogliamo sottolineare in questo articolo, non è tanto la figura del Pastore Protestante ricordata e celebrata sempre con attenzione da parte nostra, ma semmai di soffermarci sulle sue parole in quel lontano 28 agosto del 1963. Dove la parola pace era sottintesa nel far capire ai bianchi che stavano sbagliando senza mai usare frasi o espressioni di odio o comunque di avversione. Semmai, da parte sua, un andare incontro al proprio nemico per dirgli: andiamo a costruire l’America.
Non a caso in uno dei tanti documentari che gli furono dedicati, Martin Luther King per quelle sue parole e per il suo alto esempio di lotta in favore dei diritti civili applicando il metodo della non violenza, venne quasi nominato come un ulteriore padre fondatore della nazione americana.
In questa ricorrenza celebrata in questo articolo è ripartita la rubrica interamente dedicata agli Stati Uniti d’America: Usa.
FONTE FOTO: WIKIPEDIA