Erano le quattro di un anonimo pomeriggio a Città del Messico, l’aria si presentava da poco rinfrescata da una pioggerella estiva. Lo Stadio Azteca si presentava pieno, con ben 102.444 spettatori; tutti in attesa di assistere a quella che, per dirla alla ‘Brunone’ Pizzul, doveva essere una normale Semifinale valevole per il nono Campionato Mondiale di calcio, che si stava disputando nel paese centroamericano.
Le contendenti per un posto nell’ultimo atto di quel torneo, in quel pomeriggio quasi uggioso, erano entrambe europee. Si presentavano sul terreno di gioco con ben tre titoli mondiali ed uno europeo. La nazionale che deteneva più titoli, fin a quel momento, era l’Italia: due Campionati del Mondo conquistati nel 1934 e 1938 ed un Campionato Europeo vinto giusto due anni prima, nel 1968. Di contro la Germania, quella dell’Ovest per via dell’ignobile muro nella città di Berlino, si presentava sul terreno di gioco con l’unico titolo mondiale conquistato nel 1954 e forte di essere anche i Vice-Campioni del Mondo, dopo aver perso la finale dell’edizione precedente a Wembley, contro i padroni di casa: l’Inghilterra.
Nessuno poteva immaginare che Italia e Germania in quell’anonimo pomeriggio, notte in Italia, avrebbero scritto una delle pagine più belle non solo della storia dei Mondiali ma anche del calcio in generale. Il percorso verso la semifinale, per le due rappresentative nazionali, fu diverso: i tedeschi, nel loro girone, avevano vinto prima con il Marocco, per 2 a 1, a seguire distrussero la Bulgaria con un secco 5 a 2 ed infine piegarono il Perù con un perentorio 3 a 1. E dal canto nostro? Vinto 1 a 0 con la Svezia nella gara d’esordio, per pareggiare con lo stesso e identico punteggio, 0 a 0, contro Uruguay e Israele. Chi passava la fase a gironi si qualificavano direttamente per le semifinali.
Era normale, dunque, considerare noi come le vittime sacrificali ed i tedeschi gli indiscussi favoriti; senza dimenticare, comunque, che il parco giocatori di entrambe le squadre avrebbe determinato un notevole equilibrio in campo. Equilibrio che venne spezzato dal nostro numero 20, Roberto Boninsegna all’epoca attaccante dell’Inter, con un bolide di sinistro al limite dell’aria di rigore trafiggendo il portiere avversario, Meier. Era appena l’ottavo minuto del primo tempo e il match si manteneva ancora nella dimensione dell’ordinarietà. La Germania dell’ovest mostrava tutto il suo essere corazzata con giocatori leggendari come Beckenbauer, Seeler, Vogts, Hoverath ed altri.
Giocatori teutonici che diedero più di un grattacapo alla nostra difesa, composta da Burgnich, Facchetti, Cera e Rosato; senza dimenticare il nostro estremo difensore: Albertosi. Gli azzurri, comunque, forti non solo del vantaggio conquistato, riuscirono, per una buona frazione di gioco, non solo a contenere gli attacchi avversari ma ad essere ulteriormente pericolosi in più di un’occasione. La Germania, purtroppo però, è sempre la Germania e quella nazionale, in modo particolare, era difficile da domare.
Dopo i combattutissimi 90 minuti e due minuti oltre il tempo regolamentare un cross di un giocatore tedesco, all’interno della nostra area di rigore, venne raccolto al volo, semmai di piatto al volo, da un difensore che si era proiettato in fase offensiva. Il suo nome e cognome era: Karl-Heinz Schnellinger, difensore a quei tempi in forza al Milan. Nessuno poteva immaginare che sia l’errore della nostra difesa e sia la rete a porta quasi spalancata del tedesco avrebbero dato inizio a qualcosa di veramente leggendario.
Da quel momento in poi la semifinale Italia – Germania smise di essere una semplice partita di calcio, entrando in una ulteriore dimensione: quella, parafrasando una famosa serie tv, ‘Ai confini del crepacuore’. Al 4° minuto del primo tempo supplementare, con il morale a terra per il pareggio subito, gli azzurri si fecero beffare da uno dei classici sporchi goals di un’altra leggenda tedesca, Gerard Muller. Il giocatore infilò il proprio piede sinistro tra il difensore e portiere avversario, siglando la rete del vantaggio: 2 a 1.
Quattro minuti più tardi, invece, su un maldestro rinvio di un difensore il nostro terzino destro Burgnich supera il portiere firmando il pareggio 2 a 2. Otto minuti più tardi, addirittura, passiamo in vantaggio con un gran diagonale di ‘Rombo di Tuono’, al secolo Gigi Riva, concludendo un ottimo contropiede. Purtroppo, però, tempo due minuti e Muller ci mise nuovamente il suo zampino, deviando nell’angolino, tra palo e giocatore, un colpo di testa del compagno di squadra Seeler: nuovamente 3 a 3.
Il giocatore italiano che avrebbe dovuto coprire il palo sinistro della porta, dando così aiuto al nostro Albertosi, era la bandiera rossonera Gianni Rivera, il quale tra il primo ed il secondo tempo regolamentare, aveva sostituito l’altra grande bandiera della Milano calcistica: Alessandro Mazzola. Gianni Rivera, in quell’occasione, venne ingiuriato in tutti i modi da Albertosi; comprensibile. Si può solamente immaginare cosa gli avrebbe potuto, come si può immaginare cosa stavano dicendo gli italiani, nel cuore della notte ed incollati al televisore; la leggenda narra che in quei momenti che alcuni di loro andarono a dormire già sull’1 a 1, convinti che la partita fosse ormai persa, e svegliati dalle grida di gioia dei vicini, ripresero la visione del match.
Lo stesso Rivera, una volta ripreso la rete del pareggio, aveva intenzione di dribblare tutta la squadra per andare dritto verso la porta avversaria e farsi perdonare l’errore che aveva appena commesso. Vedendosi circondato da troppe magliette bianche, decise di retrocedere dalle sue intenzioni passando la sfera a Facchetti; il capitano azzurro, senza pensarci troppo, lancia De Sisti sulla fascia e accentrandosi, leggermente, mise alla cieca il pallone in mezzo all’aria di rigore avversaria.
Per una frazione di secondi pareva, per un tempo sospeso, che nessuno avesse seguito l’azione, tranne qualcuno in particolare. Quel qualcuno era Gianni Rivera che insaccò per il definitivo 4 a 3, scrollandosi anticipatamente di dosso le critiche che lo avrebbero investito per non aver coperto adeguatamente il palo, e anche quelle che lo avevano già investito durante i Mondiali precedenti e vincendo, moralmente, il duello con Mazzola e quella vergognosa staffetta tra i due.
Nonostante i forsennati attacchi i tedeschi, in quegli ultimi minuti finali del secondo tempo supplementare, non avrebbero mutato il risultato ormai inchiodato sul definitivo e pirotecnico 4 a 3. Al fischio finale gli italiani, quelli che avevano trascorso una notte insonne davanti al televisore, si riversarono per le strade a festeggiare, inaugurando così i primi caroselli. E non fa nulla se poi prendemmo quattro sberle da Pelè e Company qualche giorno più tardi; il mondiale lo avevamo già vinto: moralmente.
L’abbiamo raccontata così. Forse non nel modo giusto, ma non ci andava di farlo con la classica retorica sul tempo che passa, perché anche se sono trascorsi 52 lunghi anni da quel 17 giugno del 1970 la memoria collettiva non ha dimenticato e i giovani, quasi sicuramente, dovrebbero fermarsi ad ammirare non solo quello che è stato quel match, ma per scoprire quello che un tempo era considerato il calcio.
Un calcio più lento, senza V.A.R., senza ingaggi stratosferici, ma più tecnico e sicuramente più romantico. Italia – Germania 4 a 3 e 52 anni dopo la leggenda continua a vivere attraverso i racconti di chi non dimentica.