Nel corso del decennio degli anni Ottanta si propone, nelle arti figurative, un processo di riconsiderazione della manualità pittorica, in evidente ripensamento delle ragioni di stampo ‘concettuale’ che avevano animato la ricerca artistica fino al decennio precedente
All’aprirsi degli anni Ottanta, sembra volerne introdurre il decennio il libro di Jean François Lyotard, dal titolo di La condizione postmoderna, un testo che si prefigge l’obiettivo di ricerca di fornire una sorta di ‘rapporto sul sapere’, andando a promuovere, di fatto, la destrutturazione della concezione ‘sistematica’ della Filosofia, contrapponendole una visione di friabilità.
Le grandi concezioni filosofiche che hanno ispirato l’età contemporanea, a partire dalla prospettiva illuministica, attraversando le stagioni idealistica e marxista, dovrebbero – secondo Lyotard – cedere il passo ad una cultura della parcellizzazione, che non risponde propriamente ad un’istanza di soggettivismo o di personalismo, quanto, piuttosto, ad una ‘erraticità’ di pensiero che eleva l’individuo a matrice di se stesso contestando il significato stesso di una possibilità di paideia, che viene surrogata da una rincorsa al ‘prelievo’ ed al ‘frammento’ in una condizione di ‘deriva’.
Queste parole-chiave che abbiamo appena evidenziato, ‘erraticità’, ‘prelievo’, ‘frammento’, ‘deriva’ – che mettono in risalto complessivamente un suggerimento di depotenziamento della tensione, se si vuole, ideologica – trovano corrispondenza significativa in un romanzo che, all’aprirsi del decennio degli Ottanta, riscosse notevolissimo successo, L’insostenibile leggerezza dell’essere, con cui il suo autore, Milan Kundera, raccontava non certo in termini epici, ma di compiaciuto abbandono, piuttosto, l’altra faccia di ciò che aveva significato il processo storico del ’68, di cui la cosiddetta ‘Primavera di Praga’ segna un episodio notevolmente importante, ma certamente non assorbente ed esaustivo delle istanze più ampie che quella temperie pose.
Completa il quadro – almeno in questa prospettiva molto semplificatrice – la concezione di un ‘pensiero debole’ che viene propugnata da Gianni Vattimo e da Pier Aldo Rovatti (con la diversa prospettiva di orientamento di centralizzazione del tema sull’essere o sul soggetto); ed il pensiero debole giova a porre in evidenza quella che appare la necessità di destabilizzare gli organismi concettuali, contrapponendo alla tenuta ‘sistematica’ la prospettiva di ciò che vorremmo definire con l’espressione di ‘navigazione a vista’.
Questo è il contesto che si profila alla chiusura del decennio degli anni Settanta, che avevano visto completarsi il processo di crescita del dopoguerra articolato nei tre decenni della ‘ricostruzione’ (anni ’50), del ‘boom economico’ (anni ’60), della affermazione dei diritti sociali e del lavoro (anni ’70).
Le arti figurative forniscono specchiamento di tale processo: gli anni ’50, infatti, avevano visto la necessità di riprendere le fila dopo l’autarchia culturale del periodo del ‘Novecento Italiano’ che aveva caratterizzato la profilatura d’indirizzo dei decenni tra le due guerre mondiali; gli anni ’60 sono gli anni della sperimentazione artistica dei gruppi che ‘scoprono’ le opportunità dei nuovi linguaggi dell’arte; gli anni ’70, infine, sono gli anni in cui l’artista individua il proprio ruolo di ‘operatore estetico nel sociale’, spendendosi in un impegno creativo che rifiuta l’estetismo fine a se stesso, come poté ben essere comprovato nella ‘Biennale di Venezia’ del ’76 e, non meno, nel contesto del convegno di ‘Autonomia Critica dell’Artista’ che si svolse a Bologna nel 1979.
Gli anni Ottanta, anche nel mondo delle arti figurative – analogamente a quanto avviene nel campo filosofico, ma anche in quello politico, ove primeggiano le prospettive di ‘riflusso’ di Reagan e della Thatcher – si assiste ad un ripensamento della condizione d’artista, che consiste nell’assumere a paradigma del proprio indirizzo creativo proprio quelle parole di ‘erraticità’, ‘prelievo’, ‘frammento’ e ‘deriva’ che costituiscono il principio di orientamento delle logiche ‘postmoderne’ e del ‘pensiero debole’.
Si affermano movimenti come quello della ‘Transavanguardia’ che propone una prospettiva creativa frastagliata e sfibrata, apparentemente rinunciataria e ripiegata su se stessa e, di fatto, invece, capace di farsi icona di un mondo in fibrillazione, di un mondo che andava annunciando nuove profezie di trasformazione giocate sul filo di una aspettativa di palingenesi ancorata nel convincimento che la tecnologia avrebbe potuto consentire di erodere gli spessori contenutistici, permettendo, così, quindi, un alleggerimento generale della concezione del vivere senza dover andare a distinguere con puntuale acribia per andare a stabilire, di volta in volta, la collocabilità dell’azione secondo parametri di sicuro e convincente discernimento.
Molti artisti hanno aderito a questo invito di lasciar perdere la tenuta contenutistica e di prender parte a ciò che si presentava ed annunciava come una sorta di giocoso ‘ritorno alla pittura’ dopo gli anni del privilegiamento ‘concettuale’.
A noi pare di poter dire, alla distanza, ormai, di oltre quarant’anni dalla affermazione delle prime istanze di questo processo di manifestazione anche in arte delle ragioni ‘postmoderne’ che l’arte, forse contravvenendo agli intendimenti dei corifei di questa stagione che si inaugurava col decennio degli ’80, ha inteso e saputo riprendersi le sue ragioni, provvedendo a consegnare alla storia un panorama creativo che giustifica se stesso proprio come testimonianza di un periodo di ripensamento e di rimodellazione, al cui interno emerge, quasi preterintenzionalmente, una sensibilità espressionistica che sottilmente intride l’attività creativa non solo dei Transavanguardisti, ma anche di altri movimenti, come i ‘Nuovi-Nuovi’ o i ‘Neue Wilden’, per non dire di alcune personalità sostanzialmente individuali come, ad esempio, Germanà, Nino Longobardi, Ernesto Tatafiore, Luigi Mainolfi ed altri.