Generalmente lo sport lo abbiamo abbandonato da molto tempo in questo giornale. La rubrica che avrebbe dovuto narrare le gesta dei grandi protagonisti del passato avrebbe dovuto intitolarsi ‘Storie sportive’. Ma storie sportive non ha mai trovato spazio a FreeTopix Magazine, purtroppo. Usiamo la forma negativa perché molto probabilmente questo è ancora il nostro rimpianto rispetto agli temi trattati.
Oggi però è diverso. In questo 17 gennaio non c’è tempo per i rimpianti e per quello che poteva essere. In questo lunedì vi narriamo una delle più belle storie sportive che siano mai avverate nel corso della storia di questo settore. Esattamente nella boxe. Una storia iniziata 80 anni fa, quando a Louisville, nello Stato del Kentucky, venne al mondo Cassius Marcellus Clay, conosciuto in tutto il mondo anche come Mohammed Alì.
Era il 17 gennaio del 1942 quando Cassius Marcellus Clay, Sr divenne padre per la prima volta manifestando la volontà di attribuire il suo stesso nome al suo primo erede, con il numero 4 accanto. All’epoca, specie per chi faceva parte della comunità afroamericana il nome con il quale venivano riconosciute le persone erano di proprietari di schiavi che, nel corso poi degli anni, si tramandava. La stessa cosa avvenne anche con il futuro fuoriclasse del pugilato.
Si potrebbe precisare, non per trovare qualcosa di positivo nella schiavitù, che agli avi del padre di Mohammed Alì andò lo stesso bene. Lo schiavista, in verità, era un politico, si, ma di quelli che manifestavano la volontà abolizionista di quella tratta indecorosa e vergognosa di una nazione che comunque stava nascendo, con tante speranze accompagnate, purtroppo, da molte contraddizioni.
Intorno a lui si sono avvicendate diverse leggende, alcune veritiere e altre, come capita spesso, tramandate nel corso del tempo. Leggende o comunque storie di come abbia deciso di mettere i guantoni da boxe. Si dice che una volta suo padre gli regalò una delle più belle biciclette che si potevano comprare in quegli anni. Dopo un po’, purtroppo, gliela rubarono. Disperato, sempre secondo la leggenda, il piccolo Cassius, che aveva solo otto anni, si rivolse ad un poliziotto con la speranza di poterla prima o poi ritrovare.
Sempre secondo quanto è stato riportato Cassius avrebbe detto allo stesso agente di polizia, che stava per raccogliere la denuncio che non avesse arrestato colui che gli aveva derubato lo avrebbe picchiato. ‘Ma sai boxare?’, sarebbe stata più o meno questa la domanda Joe Martin, il poliziotto appunto, che rivolse al futuro fuoriclasse della pugilato mondiale. Cassius Clay, affermando di non essere veramente in grado di saper fare a pugni, venne invitato a frequentare una palestra in particolare. E fu così che iniziò ad essere avviato verso i primi rudimenti della nobile arte.
Altra leggenda narra, con toni abbastanza comici, che molto tempo più tardi a quella sua iniziazione, un suo compagno, forse un amico o qualcuno che, molto probabilmente cercava rogne, ripetutamente lo infastidiva chiedendogli, con tanta voglia di sfidarlo, ‘dai facci vedere quanto sei forte, dai facci vedere quanto sei forte’. In effetti su di lui si stava già spargendo la voce delle sue abilità da boxeur.
Si disse che in quell’occasione, all’ottavo ‘dai’ il giovane Cassius partì con un destro diritto al volto dell’ignaro sfidante che cadde a terra e Clay, impaurito di ciò che aveva scoperto di saper fare, fuggì.
Al di là delle leggende, delle storie che hanno gravitato intorno a lui in tutti questi anni, come qualsiasi personalità importante, come qualsiasi punto di riferimento della cultura afroamericana anche lui, purtroppo, crebbe in un contesto di segregazione razziale. Famoso è l’episodio in cui, sempre da piccolo, gli fu negato un bicchiere d’acqua per il solo colore della pelle. Rimase, addirittura, scioccato anche per il brutale assassinio dell’undicenne Emmet Till avvenuto il 28 agosto del 1955, pochi mesi più tardi ci sarebbe stata la riscossa da parte della stessa comunità afroamericana.
Nella sua carriera da sportivo, Cassius Clay, vinse tre titoli mondiali ed un’olimpiade, quella dei Giochi di Roma nel 1960. Successivamente a quest’ultima vittoria, nel mese di ottobre, divenne pugile professionista. Il suo modo di stare sul ring, il suo modo di combattere era stato perfettamente descritto in una massima esternata da uno dei suoi manager: fluttua come una farfalla e pungi come un’ape. Colui che lo disse era conosciuto con il nome di Angelo Dundee.
Agile, come una molla e con colpi potenti. Soprattutto con un’agilità quasi fuori dal comune. Era difficile tenergli testa sul ring, quasi impossibile; tranne però per uno: Joe Frazier. Con lui si diede il via ad una delle rivalità più famose e leggendarie non solo nella storia della boxe ma dello sport in generale. I tre incontri tra i due, ancora oggi, sono seguiti da una serie di leggende, sono diventati a sua volta dei miti.
Certo, un altro avversario da non dimenticare fu anche Sonny Liston. Con quest’ultimo due incontri e in entrambe le occasioni furono vittorie. Frazier, invece, riuscì a tenergli testa, nonostante le due sconfitte, in tutte e tre le occasioni. Una Las Vegas, un’altra in Africa e la ‘bella’, come si usa dire, in Manila, nelle Filippine. Stratega di questi incontri fu il famoso manager di pugilato, nonché anche il futuro manager di Mike Tyson Don King.
In mezzo a queste cinque sfide leggendarie che ne hanno segnato indissolubilmente la carriera, a partire proprio dalla conquista del primo titolo datato 1964, Cassius Clay cambiò il nome in Mohammed Alì diventando ufficialmente musulmano. Il suo migliore amico era Malcom X. Le cronache dell’epoca affermano che lo stesso Alì si allontanò da Malcom quando iniziarono a sorgere i primi screzi con lega musulmana il cui vertice era rappresentato da Eliaj Mohammed. Qualcuno usò anche un altro termine ancora più forte: tradimento.
Due anni più tardi la tragica morte del suo amico Mohammed Alì sfidò gli Stati Uniti d’America nel momento più caldo durante la guerra in Vietnam. Le proteste, come ben si sa, divampavano da una parte all’altra del paese e negli anni Sessanta non era solamente la questione del conflitto in Asia ma anche per la questione della segregazione razziale.
La sua ritrosia nell’andare a combattere in Vietnam gli costò cinque anni di carcere per renitenza alla leva e, addirittura, gli venne ritirata la licenza da parte delle varie commissioni pugilistiche. La bomba ‘Mohammed Alì’ esplose quando durante una conversazione con i giornalisti disse: ‘a me i vietcong non mi hanno fatto niente. Non mi hanno mai chiamato negro’. Da lì prese il via una querelle mediatica che terminò con la condanna, appunto. Poi sappiamo come andò a finire.
Su di lui ci sarebbe tanto altro da dire, tanto altro da raccontare. Specie come ha affrontato, da vero campione del mondo, la malattia che lo ha spento a poco a poco. Quel maledetto Morbo di Parkinson che non gli vietò, comunque, di stupire ancora una volta il mondo, in occasione della cerimonia di apertura dei giochi olimpici del 1996 ad Atlanta, come ultimo tedoforo.
Un mito, una leggenda che oltrepassò i confini dello sport per diventare un’icona anche in ambito sociale e il cui ricordo non si perderà mai. Oggi, in questo 17 gennaio 2022, sarebbero stati appunto 80 anni e dovunque adesso lui si trovi in noi, comunque, c’è l’istinto di fargli gli auguri di buon compleanno.