Di origine calabrese, Marcella Ceravolo, nata nella prima metà del ‘900, ha svolto una funzione di ‘ponte’ nel rinnovamento creativo tra istanze formative d’anteguerra ed ansiti decisamente proiettati in avanti.
Marcella Ceravolo, dopo essere giunta a Napoli dalla natia Calabria, trova il suo punto di riferimento, all’interno dell’Accademia di Belle Arti, nella figura di Emilio Notte; ed alla sua ‘scuola’ prende a liberarsi di quegli esiti che ancora potevano rimanere nella sua sensibilità – piuttosto che nella sua vera a propria formazione artistica di base – di reminiscenze ‘novecentiste’ e ‘sarfattiane’ e, comunque, di cultura d’anteguerra.
La ‘scuola’ di Notte ha avuto il merito di produrre una salutare rimodellazione dell’impostazione metodologica degli studi artistici all’interno dell’ambiente accademico napoletano, ove l’artista ha portato il frutto delle sue esperienze creative approdate ad una ricerca che aveva avuto il merito di spaziare all’interno delle più importanti prospettive innovative del primo ‘900.
In particolare, Emilio Notte si rende protagonista di una fertilissima sintesi che consiste nel riuscire ad intrecciare, con fertilissimi risultati produttivi, la capacità di scomporre l’immagine del reale, propria dell’istanza cubista, con l’ansito vitalistico ed esuberante proprio della temperie futurista.
I giovani seguaci di Emilio Notte fanno propria la lezione del Maestro: e tra i suoi allievi va annoverata anche Marcella Ceravolo, cui Notte guarda come a promettente personalità di artista e cui riserva molte lodi per i progressi man mano compiuti, continuando ad avere egli stima di lei anche dopo gli anni passati all’interno dell’istituzione accademica.
Ecco, quindi, che questa artista avvia la sua piena esperienza creativa nei primi anni ’50, ‘benedetta’ dal consenso e dall’apprezzamento di Notte, nella cui scia possono leggersi, peraltro, le prime prove che ella fornisce nel contesto della sua attività creativa.
Dal suo maestro ella, poi, man mano si discosterà non perché ne rifiuti la ‘lezione’ formativa, ma poiché assume una sua sempre più spiccata identità personale, volgendosi ad osservare, negli anni ‘60, le peculiarità che distinguono la temperie del cosiddetto ‘Realismo esistenziale’, nel cui ambito fornisce delle prove di indiscutibile interesse.
Non si ferma lì, tuttavia; ed ha saputo ella interpretare in chiave del tutto personale le sensibilità proprie degli anni ’60: in tal modo, ha saputo dar corpo, soprattutto, ad una pittura di agile ariosità figurativa, accompagnandola ad una pratica scultorea in cui lo spessore dei volumi sapeva stemperarsi in suggestive scansioni planari, capaci di lasciar scorrere la luce in scivolamenti di godibile modulazione.
Gli anni ’70, caratterizzati da una più corrusca accentuazione degli aspetti contenutistici hanno trovato riscontro nella pratica figurativa di Marcella Ceravolo, che ha provveduto a rendere più maturo e più sobrio il suo impegno, andando alla ricerca di un equilibrio di formulazioni compositive sempre più corposamente articolate in compiute modellazioni d’assetto, non prive in qualche caso di vibratilità latamente espressionistiche.
Evidentemente, questa rimodellazione formale trova una sua ragione giustificativa nella prospettiva di una più avvertita coscienza contenutistica: ed essa si rivela come processo di una meditazione più profonda e matura delle concezioni di vita, che trovano corrispondenza in un percorso psicologico e morale sulla cui via ella va a parametrare le scelte esistenziali ed artistiche.
Gli ultimi anni della sua vita saranno quelli in cui la artista definisce una sorta di bilancio dell’esistenza e la sua produzione si fa ancor più meditata e compunta; in qualche modo, addirittura, potremmo dire, più ripiegata su se stessa, alla ricerca di una dimensione umana ed esistenziale all’interno della quale poter trovare, nella ragione dell’arte anche una ragione delle cose e finanche della propria identità.
La pratica figurativa è stata una costante nella attività della Ceravolo, ma non è stata una pedissequa e ripetitiva riformulazione di schemi acquisiti, giacché la nostra artista ha sempre inteso la pratica creativa come una sfida costante con se stessa, una sfida capace sempre di suggerirle obiettivi avanzati e diversi, e tali da imporle uno sforzo proiettivo verso il raggiungimento di traguardi sempre più ambiziosi, come quelli, ad esempio, che ella avrebbe raggiunto nel suggerimento di quella che, forse, avrebbe ella stessa inteso come la più importante realizzazione della sua vita d’artista ed anche come una sorta di testamento culturale, un’opera destinata, peraltro, non certo alla pubblica fruizione, ma al proprio utilizzo intimo e personale: la decorazione della sua camera personale nella sua villa di Ischitella, in cui la produzione di un ciclo di ispirazione religiosa – di fatto incompiuto – avrebbe dovuto poter costituire, probabilmente, per lei, l’opportunità di uno specchiamento costante di sé, della sua coscienza di donna e di artista.