Un anno fa, esattamente il 4 agosto 2020, la terza più grande esplosione non nucleare mai registrata al mondo distrusse quasi la metà della città di Beirut. In pochi secondi vennero cancellati il porto e la parte orientale della capitale.
Fu una delle più grandi tragedie dei tempi moderni. Persero la vita più di 200 persone e ne rimasero ferite migliaia. 300.000 rimasero senza casa e oltre 80.000 spazi commerciali, residenziali e pubblici vennero danneggiati.
L’esplosione ha provocato circa 15 miliardi di dollari di danni che si sommano alle già problematiche situazioni derivanti dal Covid, dai disordini politici e sociali e dal collasso economico del Paese.
Un anno dopo, poco è cambiato. Le grandi questioni sono rimaste senza risposta: le istituzioni non hanno intrapreso alcun piano di ricostruzione. In totale assenza dello Stato, la società civile ha preso in mano la situazione.
Al punto zero, l’esplosione ha distrutto la facciata rivolta a est dei silos granari, alti 48 metri, lasciando un cratere di circa 124 metri di diametro e 43 di profondità.
Alcuni specialisti ritengono che la robusta struttura superstite dei silos abbia schermato ampiamente la parte occidentale della capitale, assorbendo gran parte delle onde d’urto dell’esplosione e proteggendo la città da un maggiore annientamento.
Responsabile dello stoccaggio dell’85% del grano del Libano, questa meraviglia strutturale è stata costruita tra il 1968 e il 1970. Originariamente comprendeva 42 silos; ulteriori cilindri vennero aggiunti durante i lavori di ristrutturazione nel 1997. Sviluppata dall’ingegnere libanese Jacques Nasr, al momento dell’esplosione era la struttura più grande del Medio Oriente.
Oggi ci si chiede se i silos debbano essere demoliti o preservati a futura memoria. Mentre questo dibattito sui simboli e sulla memoria collettiva va avanti, Beirut ha comunque priorità e bisogni più urgenti.
Attualmente, la città e la sua ricostruzione dipendono unicamente da iniziative personali. Con l’assenza di una visione governativa lungimirante ed organizzata, Beirut oggi è solo una versione “più ordinata” di quello che era un anno fa. Le strade sono state ripulite da macerie e vetri, gli edifici sono coperti da scudi di plastica e le impalcature sono sistemate un po’ ovunque. In questo, la popolazione è particolarmente abile, essendo stata abituata a decenni di conflitti e bombardamenti e, successive, riedificazioni.
I fondi stanziati dalle ONG non bastano a coprire le enormi conseguenze dell’esplosione, soprattutto con il collasso dell’economia e l’aumento del costo dei beni primari. Pertanto, viene data priorità alla realizzazione di alloggi temporanei per le persone senza dimora e alla riparazione parziale degli edifici danneggiati.
Per gli edifici storici, invece, la situazione è molto più complicata. Sono necessari maggiori risorse finanziarie e l’intervento di specialisti. Circa 600 edifici storici, risalenti all’epoca ottomana o costruiti tra il 1930 e il 1970, hanno subito gravi danni. Parliamo soprattutto dei quartieri di Mar Mikhaël, Rmeil, Medawar e, in particolare, il fronte mare.
Le ONG hanno preso il posto del governo centrale, creando una sorta di amministrazione municipale alternativa, ma guidata da volontari con modeste capacità finanziarie. Comunque, un innovativo laboratorio sociale, composto da singoli individui con grande senso civico.
Hashim Sarkis, il curatore libanese della Biennale di Venezia 2021, spiega che la rabbia, diffusa con forza nella popolazione dopo l’esplosione, è rivolta soprattutto alla corruzione e all’incuria. I due motivi principali che hanno, poi, generato questa grande tragedia.
Accanto a questo sentimento, si è poi risvegliata la forte resilienza degli abitanti di Beirut, abituati, negli anni, al drammatico susseguirsi di guerre e distruzioni.
Tuttavia, Beirut, ricostruita negli anni ’90, non ha solide fondamenta civiche. Si sono realizzate autostrade ma non trasporti pubblici, spazi privati ma non collettivi, nuovi ospedali senza un sistema sanitario nazionale.
La più grande sfida del Libano di oggi è trovare un modo per unire gli sforzi della collettività in una visione audace e futuristica della città, incanalando e indirizzando, nel modo più appropriato, il grande lavoro che tutti i cittadini stanno compiendo con le proprie sole forze.
Beirut sta diventando, nel mondo, un nuovo laboratorio sociale specchio di una atavica incapacità governativa e di una nuova visione di cultura civica collettiva, al di fuori dell’amministrazione pubblica.
“Unirsi” è un atto di resistenza e la città saprà sicuramente resistere e rinascere.
Il trauma ereditato dagli ultimi anni di guerra, unito a quello dei recenti eventi, legano il popolo libanese, più di quanto ci si possa rendere conto.
Questa sofferenza condivisa si sta trasformando in una memoria collettiva che definirà, per sempre, la narrazione di questa comunità.
Per superare tutto questo, come città e come nazione, occorre tuttavia una nuova giustizia sociale. Mentre le strutture possono essere ricostruite e sostituite, i quartieri non possono guarire in assenza di legalità.
Pertanto, non importa quanti edifici verranno ristrutturati, non importa quanto la comunità abbia cercato di affrontare collettivamente il suo trauma: se non verrà assicurata una giustizia sociale, la città rimarrà, per lungo tempo, in lutto e in difficoltà.
(in questo articolo, le meravigliose foto del fotografo libanese, Dia Mrad)