“Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, nuntia vetustatis” scriveva Cicerone nel De Oratore. Da questa frase è stato poi coniato il brocardo “historia magistra vitae”.
La Storia non è solo un’asettica successione cronologica di eventi, date e nomi. La Storia è la spiegazione dei fatti, degli errori, delle vicende dei singoli uomini, di interi popoli e dei loro territori.
Conoscere la Storia, almeno in teoria, dovrebbe aiutare a comprendere le dinamiche degli eventi, le cause, gli effetti ma soprattutto gli errori compiuti da altri. Questa conoscenza della Storia, intesa come studio degli errori, dovrebbe guidare l’operato di ciascun campo del sapere umano, incluso quello militare.
Del resto, come scritto da Charles Fair nel suo libro “Storia degli errori militari” (Odoya 2013), più di venti secoli di battaglie sono stati connotati da errori e scelte tragiche che hanno condotto interi eserciti alla distruzione o alla morte di soldati. Tanti sono gli esempi: dalle Legioni di Crasso inoltratesi nel deserto della Siria e poi distrutte a Carre, alle campagne di Russia di Napoleone o di Hitler, passando per lo sbarco di Gallipoli, per poi finire con la sconfitta francese in Indocina, a cui poi si aggiunge quella statunitense in Vietnam.
Ciò che però stupisce non è la quantità di errori o la loro dimensione, bensì la loro tremenda somiglianza. Le cecità di determinate scelte strategiche, infatti, sembrano costituire un leitmotiv costantemente. Come evidenziato dal Professor Cimmino nella sua conferenza sulla battaglia di Dien Bien Phu, a studiare la storia sembra che i generali non studino mai e ripetano sempre gli stessi errori e che non imparino mai, con la conseguenza che i primi a rimetterci sono i soldati.
Questo pensiero è emerso nella mente degli esperti di strategia militare e di geopolitica (purtroppo pochi come Gastone Breccia o Luca Caracciolo, a differenza dei tanti conferenzieri da salotto) alla vista dell’ultimo soldato americano che si imbarca sull’ultimo C-17 in partenza da Kabul, nella notte tra il 30 ed il 31 agosto.
L’aspetto marziale e la compostezza del soldato che abbandona ciò che ha dietro di sé, inquadrato nella luce verdastra degli infrarossi, è il simbolo di una sconfitta. Una delle sconfitte più clamorose dell’esercito statunitense che inevitabilmente riporta alla memoria un altro disastro militare: Saigon 1975.
La precipitosa fuga da Saigon, invasa dall’esercito Nord-Vietnamita all’esito di un lungo conflitto è immediatamente comparsa nella mente di tutti, accompagnata da un altro pensiero: anche stavolta. Sì!
Anche stavolta l’esercito statunitense è stato sconfitto.
Anche stavolta il più grande, moderno e potente apparato militare della storia moderna – glorificato da molti storici (non si sa bene con quanta onestà intellettuale) al pari delle legioni romane – è stato irrimediabilmente sconfitto da un esercito numericamente e tecnologicamente inferiore.
Ed anche stavolta, si è ripetuto quello che era successo nel Vietnam: la ripetizione della Storia e dei suoi inesorabili meccanismi. La caduta di Saigon del 1975, anche se l’esercito americano aveva già sgombrato il paese dal 1973, segnò la fine della guerra del Vietnam.
Fiumi di inchiostro e metri di pellicola sono stati spesi per analizzare questa sconfitta.
Tanti sono gli aspetti sondati dagli studiosi (impossibili riassumerli qui) ma quello che attrae particolarmente l’attenzione è l’inquietante somiglianza della sconfitta americana con la disfatta francese nella guerra di Indocina, sancita dagli accordi di Ginevra del 1954, avvenuta pochi anni prima e sul medesimo territorio.
La sconfitta francese, il cui simbolo è la sconfitta di Dien Bien Phu con la resa dei paracadutisti francesi del colonello Croix de Castries, era determinata da molti fattori, riassumibili principalmente in una sottovalutazione del nemico, incapacità dei comandi militari di comprendere il contesto in cui si muovevano e nell’incapacità dell’esercito di controllare il territorio.
I Francesi confidarono eccessivamente nella loro supposta superiorità tecnologica, a cui deve aggiungersi lo snobismo degli alti comandi nei confronti dei vietnamiti.
Tuttavia, gli alti comandi francesi non tennero in conto, pagando a caro prezzo quest’errore, di trovarsi di fronte un nemico ben armato (dagli Usa), ben organizzato, dotato di un’ottima conoscenza del territorio, guidato da un autentico genio militare del XX Secolo, quale il generale Giap.
Ad esempio degli errori commessi è sufficiente richiamare l’impostazione della battaglia di Dien Bien Phu. Alla fine del 1953, con l’operazione Castore, i francesi paracadutarono un folto contingente di oltre diecimila uomini nella vallata di Dien Bien Phu, nell’alto Vietnam al confine con il Laos, con lo scopo di creare una base solida alle spalle dello schieramento di Giap, nel bel mezzo del territorio nemico.
Senza nessuna linea di comunicazione terrestre, i francesi si illudevano di poter rifornire le truppe con un solido ponte aereo. Tuttavia, anche in questo caso i generali ignorarono la storia, dimenticando che pochi anni prima, la disfatta tedesca a Stalingrado aveva dimostrato che è impossibile tentare di rifornire per via aerea migliaia di uomini, isolati ed accerchiati dal nemico.
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