In Cina è tabù. Ma non in Occidente. Eppure delle silenziose fiaccolate saranno di sicuro organizzate per ricordare le vittime del massacro da parte dell’esercito cinese contro i manifestanti inerti. Contro studenti, in quali erano scesi in piazza per chiedere diverse riforme. Erano scesi in piazza per respirare l’aria della libertà. Sono trascorsi oltre trenta anni da quei giorni di Pechino, iniziati il 15 aprile del 1989 e terminati quasi due mesi dopo. Il 4 giugno del 1989.
Quel giorno è legato indissolubilmente ad un’immagine in particolare. A quel giovane, eroico e solitario, che si piazzò davanti al cingolato dell’esercito. Quell’immagine, quella foto, che fece il giro di tutto il mondo attraverso i vari telegiornali dell’epoca venne scattata, però, il giorno dopo: il 5 di giugno.
Quella sollevazione popolare, quella sollevazione di massa venne innescata, si, dalla morte di Hu Yaobang, ma principalmente, anche tra le tante richieste, di muovere delle critiche contro al regime comunista, ancora vigente, che schiacciava, e che schiaccia tutt’oggi, la libertà di pensiero.
La data del 4 giugno è ricordata, soprattutto, per la risposta all’esercito verso la popolazione. L’unica cifra ufficiale è quella di oltre 300.000 feriti. Vittime? Non fu mai stato rilasciato un comunicato che almeno indicasse la cifra. Ciò che si sospetta è che i morti furono migliaia di migliaia.
In verità quando morì Hu Yaobang, un noto politico riformatore, il popolo cinese iniziò a protestare civilmente contro il regime comunista affinché, quest’ultimo, prendesse posizione ufficiale nei confronti del politico scomparso da poco. Quindi ci fu un vero cordoglio da parte dei cinesi per quella perdita. Ciò che successe nelle ore successive, invece, fece degenerare la situazione. Perché la protesta divenne più intensa quando iniziarono a trapelare notizie sui primi scontri con la polizia.
In piazza c’erano una moltitudine di studenti facenti parte, anche, del movimento democratico cinese, nato in un altro periodo rivoluzionario per il paese: il 1978. La tensione divenne ancor più alta quando il giorno dei funerali, il 22 aprile, gli stessi studenti chiesero d’incontrare il primo ministro Li Peng, conosciuto poi come ‘Il massacratore di Tienamen’.
Li Peng, come gli altri membri del partito comunista, ignorò di fatto quella richiesta e la rabbia degli studenti esplose definitivamente. Difatti lo scontro avvenne per due ordini di idee contrapposte: il popolo credeva che i mass media cinesi stessero in realtà manipolando le realtà sulle proteste; Li Peng credeva, invece, che i manifestanti erano mossi da potenze straniere.
Furono giorni duri e drammatici fino a quando la notte del 4 giugno si verificò, da parte dell’esercito cinese su ordine di Li Peng, il massacro degli studenti e non solo. I militari spararono su gente inerme e non armata. Gente che protestava in nome della libertà. Il numero delle vittime, come detto, non è mai stato ufficializzato o per meglio dire non è nemmeno lontanamente ipotizzato.
Quella rivolta, sicuramente, fu il frutto anche del vento che stava cambiando nei paesi della ‘Cortina di ferro’ e alla caduta del muro di Berlino mancavano solamente altri pochi mesi.
A distanza di anni in Cina di questo evento non si può parlare, non si può neanche celebrare il ricordo. Si, le marce ci sono. Ma sono talmente nascoste dai media locali che non se ne parla. Tant’è vero che esiste, da parte del regime comunista, una vera e propria censura di internet: motori di ricerca, chat e social network. Molti per evitare di essere scoperti nel parlare di tale evento hanno ideato il ‘35 maggio’. Nome in codice dal dissidente scrittore Yu Ha.
Ritornando a quel rivoltoso sconosciuto ancora oggi non si è mai scoperta la sua identità. Alcuni ipotizzano che sia stato ucciso qualche giorno più tardi, per altri invece è diventato un vero e proprio simbolo da ostentare contro il regime oppressivo di Pechino, seppur di nascosto.
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