Il primo articolo della nuova rubrica: ‘Arti Figurative’
La genesi di ciò che può definirsi ‘aniconismo informale e nucleare’ è molto più complessa ed articolata di quanto non potrebbe lasciar presagire l’individuazione di una definizione ‘stilistica’ di cui Michel Tapié (Un art autre, 1952) addita l’abbrivio.
‘Aniconismo informale e nucleare’ implica chiamare in causa due condizioni d’intervento che sono quelle che presiedono la produzione di un’immagine artistica priva di quei riscontri oggettuali che, nell’immagine di rilievo propriamente ‘realistico’, individuano la sostanza visiva dell’immagine stessa.
Le condizioni specifiche che governano la produzione aniconica, quella totalmente priva, quindi, di referenze ‘realistiche’, sono quelle della gestualità (più insistita nell’informale) e della preterintenzionalità (più vividamente distintiva del nucleare). Entrambe riposano nell’alveo materico e ne implicano la pregnanza come fattore decisivo ed inalienabile.
Nella pratica propriamente informale la gestualità produttiva dell’artista accompagna in modo più diretto e presente il prodursi dell’opera, che nasce da una disponibilità creativa che non affida il portato del suo ottenimento d’immagine alla possibilità di una sua nominazione lessicalmente riconoscibile.
Priva della possibilità di essere identificata con un nome, insomma, l’immagine creata dall’artista si rivela informale, priva, cioè, di una forma che possa essere riconosciuta e descritta.
Analogamente avviene nell’ambito delle pratiche nucleari, cui va riconosciuta, in aggiunta, una carica di preterintenzionalità produttiva, che disarticola l’intervento specifico dell’artista, limitando la portata del suo impegno ad una gestualità che si dichiara disponibile ad accompagnarsi alla misura di una casualità dispositiva che è quella verso la quale si dirige il pigmento quando viene ‘gettato’ sul supporto, affinché la libera esondazione del flusso materico possa procedere a trovare, in perfetta autonomia, il proprio assetto di coagulazione e di disposizione finale.
Non v’è dubbio che, in entrambi i casi – nella pratica informale, come in quella nucleare – ciò che agisce in modo significativo e pregnante è la consistenza del contributo ‘corporeo’ dell’artista, che lascia nell’opera una traccia imprimente della sua presenza, una traccia che testimonia di un vitalismo energico e generoso, ricco di una sensibilità esistenziale che costituisce fattore identitario nella definizione dell’appartenenza dell’opera, e che costituisce, altresì, fattore determinante per il conferimento di una dovuta carica contenutistica.
La pratica dell’Informale e del Nucleare dà corpo ad esperienze creative molto complesse, che fanno di questa misura d’intervento uno spazio immaginativo di straordinaria pregnanza, soprattutto perché l’Informale riesce a proporsi come collettore di istanze liberatorie, lasciando spazio, finalmente, di poter dar sfogo della propria identità e delle proprie proposte.
Senza forma, quindi, l’Informale ed il Nucleare dilatano la costruzione dell’immagine, e si nutrono proprio di ciò che potremmo definire come innominabilità del soggetto, iscrivendo, però, l’immagine stessa, non nel novero della dimensione eidetica, ma in un ambito propositivo in cui si scelga di misurarsi con la materia, sapendo di dover riservare alla misura espressiva un ruolo centrale, nel quadro della valorizzazione piena dei riferimenti non solo pragmatici, ma anche propriamente contenutistici che possono appartenersi al ruolo della corporeità e, in particolare, del gesto.
Sono ben noti i nomi delle personalità d’artisti che hanno dato vita a questa temperie creativa, ma noi vorremmo qui sottolineare quelli di qualche personalità che ha fornito un importante contributo di snodo tra una concezione ancora debitrice dell’istanza figurativa ed una prospettiva di decisa apertura sul fronte della scelta aniconica e materica.
Pensiamo, in particolare a quella generazione di artisti che si articola intorno alla personalità di Francesco Arcangeli, un critico coraggioso ed innovatore, che in un celeberrimo articolo del 1954, pubblicato nella rivista “Paragone”, definisce come ‘ultimi naturalisti’ un piccolo nucleo di artisti che pratica una pittura decisamente materica, come provvedono, infatti, a fare Pompilio Mandelli, Ennio Morlotti, Sergio Romiti, Mattia Moreni, Vasco Bendini, Sergio Vacchi.
Sono questi anche gli anni in cui si propone all’orizzonte la fertilità di una ricerca informale più decisamente legata all’impatto diretto con la pregnanza materica, come sa essere, infatti, la produzione di Alberto Burri, un artista che costruisce l’ordito della sua opera articolando la sensibilità dei suoi ottenimenti creativi in una calettatura espressiva che si caratterizza di vibrati spessori.
Né manca – e ci troviamo sempre all’interno del primo lustro degli anni ’50 – qualche giovane artista napoletano, come allora era Carmine Di Ruggiero, che prende a promuovere delle prime sperimentazioni sul delicato rapporto della nuova opportunità che si offre di una declinazione dell’immagine in termini di schietta pregnanza materica e di deciso indirizzo informale, così come non mancano – parliamo ancora di Napoli – altri generosi contributi di ricerca che scelgono di volgersi alla pratica nucleare, come avviene, ad esempio, in artisti come Mario Colucci, Libero Galdo, Elena Cappiello, Ciccio Capasso.
Cosa c’era alle spalle di tutto ciò? Il nulla? Tutt’altro: c’erano, piuttosto, esperienze creative europee – ma anche, per quanto apparentemente dissimulate, anche italiane – di grande profilatura contenutistica che avevano tentato di annunciare il nuovo di vocazione aniconico-informale già nel corso degli stessi anni Trenta.
Ma di questo contiamo di parlare in un nostro prossimo intervento.