Una breve ma intensa analisi sull’operato di un Presidente troppo fuori dagli schemi
Trascorse le celebrazioni per il ricordo delle vittime dell’attentato dell’11 settembre del 2001, si riprende con il viaggio verso le presidenziali americane del prossimo 3 novembre; si riparte, riprendendo anche la metafora sportiva con il quale abbiamo aperto questa serie di appuntamenti, con il detentore del titolo di Presidente degli Stati Uniti che, proprio in queste ore, ha ottenuto, in politica estera, un importante successo che lo ha di sicuro galvanizzato.
Donald J. Trump, quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America, con la sua politica ‘America First’ non ha, già da subito, raccolto consensi postivi; nemmeno da coloro che in passato avevano sempre criticato l’interventismo americano in ogni angolo del pianeta. Le sue idee, il suo modo di fare, il suo modo di agire e di parlare hanno interrotto l’equilibrio che la carica dell’ufficio ha sempre mostrato sia nelle sfide interne e sia in quelle esterne.
Il suo America First doveva lasciare intendere, di fatto, un ritiro totale entro i propri confini dell’America dalla scena internazionale. Una nazione, quindi, non più come ‘poliziotto del mondo’. Eppure qualcosa non quadra. In alcuni momenti di questi quattro anni, il Tycoon, ha in realtà messo in condizioni gli Stati Uniti di essere ancora fondamentale e decisivo nello scacchiere mondiale.
Nonostante il ritiro dei militari americani in zone particolari non si è tirato indietro sul Venezuela, sulla Cina, su Hong Kong, sull’Iran e appunto proprio sulla questione mediorientale, prima, ha spostato l’ambasciata americana a Gerusalemme, scatenando l’ira dei palestinesi e poi, in ultimo, con la stessa Israele, Barhein ed Emirati Arabi Uniti ha stipulato lo storico accordo di pace accennato all’inizio di questo articolo. Proprio in merito a ciò, quando l’incontro alla Casa Bianca era stato annunciato nei giorni scorsi qualcuno lo aveva addirittura indicato come possibile Premio Nobel per la Pace.
A dire la verità pochi hanno protestato, sebbene questa scelta a spiazzato molti, nemmeno i detrattori hanno fatto sentire la loro voce contro un Presidente americano molto particolare. Difatti: un premio Nobel per la pace, in un momento di crisi sociale o comunque morale del proprio paese, per non dire razziale, non accenderebbe mai gli animi con uscite poco istituzionali, cercherebbe di intuire le motivazioni delle proteste, anche se sono ormai risapute, e cercherebbe, oltremodo, di portare le due anime della nazione verso la riconciliazione.
Costruirebbe, dunque, un dialogo costruttivo tra le minoranze, logicamente stanche di subire atti di razzismo o abusi da parte della polizia. Userebbe, insomma, l’arma della diplomazia e solo quando serve opterebbe per il pugno di ferro. Invece no: Trump, da quando è in carica, ha usato fin da subito le maniere forti: i dazi promessi e poi attuati, il taglio delle tasse promesse e poi attuate, la risoluzione di accordi internazionali non proprio equi per gli Stati Uniti d’America; il muro al confine con il Messico, purtroppo più volte promesso e ancora in fase di attuazione.
In merito a ciò, però, nessuno ricorda precisamente, in questo preciso momento storico, che la prima ‘pietra’ è stata posta, nella metà degli anni ’90, dall’allora amministrazione Clinton, del Partito Democratico; proseguita da George W. Bush, Partito Repubblicano e Barack Obama, nonché suo predecessore, del Partito Democratico. Di certo la questione del muro con il Messico lo pone al centro di ulteriori polemiche che sconfinano nella delicatissima, e annosa, questione che tiene banco da sempre: il razzismo.
Joe Biden durante la Convention Democratica del mese scorso ha definito questa piaga come ‘Il peccato originale’ con il quale è nato il Paese. Un peccato originale che dallo scorso 25 maggio è nuovamente esploso in proteste, sia pacifiche che violente, per le strade americane. Anche su questo non si specifica, in realtà, che i rapporti tra il corpo di polizia e la comunità nera erano già ai minimi storici già ai tempi del primo, e storico, Presidente afroamericano Barack Obama.
Con questo non si vuole difendere un Presidente che già in altre occasioni, proprio in questo blog, è stato duramente criticato proprio per i motivi citati sopra; senza dimenticare che è stato disastroso anche nell’affrontare l’emergenza covid-19 in merito alla crisi sanitaria. Nonostante la stessa sanità statunitense ha sempre presentato uno schema impensabile per gli standard europei.
Ma anche in tale occasione Trump avrebbe chiesto alle case farmaceutiche di abbassare il prezzo del vaccino, così da renderlo distribuibile più facilmente a tutta la popolazione, e che lo stesso vaccino sarebbe pronto, sempre secondo le sue parole, fra un mese. Quindi ancor prima delle elezioni tanto attese. Solamente una mossa elettorale? Forse sì o forse no. Sta di fatto comunque che si sta cercando di analizzare l’operato di un Presidente, forse dimenticando anche qualche altro passaggio fondamentale, che, paradossalmente, quello che promette poi mantiene.
Ma non lo assolve, comunque, dalla sua gestione dell’arrivo del covid-19 entro i confini americani sia sulla questione razziale. Sempre nell’ambito coronavirus in questi mesi, Trump, ha più volte cambiato idea su come contrastarlo e sull’utilizzo delle mascherine; senza dimenticare che in quei giorni voleva addirittura chiudere i confini per i voli provenienti dalla Cina, ma il Partito del suo avversario era insorto su tale decisione. Ha permesso, ulteriormente, che gli americani avessero, durante il periodo di lockdown, 1200 dollari sul loro conto corrente bancario e invitando, addirittura, la Federal Reserve, ad investire di più per aiutare gli stessi lavoratori.
Proprio sull’economia, sulle promesse di abbassare le tasse, ha mantenuto la parola; come l’ha mantenuta sul colpire la Cina con i dazi costringendo, alla fine, il governo di Pechino di cedere sull’acquisizione dei prodotti americani da immettere nel mercato interno cinese e poi è arrivata la pandemia ed è iniziata tutta un’altra storia da continuare ad analizzare in un ulteriore momento.