Arrivare alla finale di un Mondiale di calcio comporta sempre, alla base, delle scelte stabilite e messe in pratica. Elaborate e confermate dopo un lungo periodo di valutazione. Vincere l’ultimo atto della Coppa del Mondo, poi, è sinonimo di scelte che, oltre a rivelarsi giuste, sono state mantenute e difese, nel tempo, da chi le ha sostenute con forza, testardaggine e caparbietà.
Seppur vero che l’eventuale vittoria è anche e soprattutto frutto di una buona dose di fortuna e di determinate condizioni, come la forma migliore, lo stesso è originata, a rigor di logica, da altrettante scelte fortunate. Il caso della finale mondiale del 1994 nello stadio di Pasadena, a Los Angeles, è emblematico nella figura, ugualmente carismatica, dell’allora Commissario tecnico della Nazionale Arrigo Sacchi.
Superando il discorso squisitamente tecnico-tattico e su quali delle due nazionali avrebbe meritato la gloria finale, l’analisi indirettamente è improntata nel favorire il Brasile di quell’anno. Non perché non meritavamo di vincere, sia chiaro e al di là dei calci di rigore o meno, o per un’evidente inferiorità tecnica che non esisteva. Tutto gira intorno alle scelte adottate da Sacchi. La nazionale verdeoro non era più quella di un tempo. Meno fantasiosa e più tattica, ma sempre grande palleggiatrice.
Rispetto a noi possedeva una vera e propria idea di squadra ben precisa; un’ossatura di squadra costruita con idee e scelte fin dall’inizio chiare. Non esisteva, quindi, una vera formazione, quella classica definita ‘tipo’, a causa di una non chiara visione di Arrigo Sacchi. Non esisteva una proposizione degli stessi uomini sul campo per più un match consecutivo.
Ogni partita veniva disputata con formazioni diverse, senza dimenticare, purtroppo, l’illogico cambio di ruolo di alcuni giocatori chiave di alcuni nostri giocatori. Morale della favola: Sacchi perse per le sue idee che non erano idee se non confusionarie. Il suo, in ambito nazionale, fu un calcio totalmente inesistente e la spettacolarità era solo da parte degli avversari. La sua presunzione lo portò ha non saper gestire, in momenti clou di quella partita, lo stesso Roberto Baggio; il nostro numero 10 più atteso di tutto quel torneo e per un semplice motivo: era il pallone d’oro in carica.
E’ chiaro come il sole che un giocatore, che sia un fuoriclasse o no, non vorrebbe mai perdere l’appuntamento con la storia, con la gloria. Quell’infortunio, accusato nella semifinale del 13 luglio del 1994 a New York contro la Bulgaria, rappresentava sì una beffa per il ‘Divin Codino’, ma non una giustifica per fargli giocare tutta la gara fino ai micidiali tiri dagli undici metri. A distanza di tempo il fuoriclasse di Caldogno è stato assolto. Lui ha cercato di fare di tutto. Non a caso si era anche ripreso durante il mondiale, dopo una prima fase inguardabile. Con cinque reti ci spedì in finale, semmai avesse realizzato la sesta ci avrebbe regalato molti anni prima la quarta coppa del mondo.
Chi aveva l’obbligo morale di sostituirlo in quell’ultimo atto era Sacchi. A sua disposizione aveva il capocannoniere degli ultimi due campionati, Giuseppe Signori, e colui che venne definito l’erede di Maradona e Magic Box in Inghilterra, Gianfranco Zola. Optò per Daniele Massaro il quale si fumò una ghiotta occasione nei primi minuti della partita, il quale sbagliò uno dei tre rigori calciati nella maledetta lotteria. Per i brasiliani sbagliarono solamente Marcio Santos. Per noi invece il primo ha sbagliare fu Franco Baresi. Di lui si dirà che dopo 21 giorni all’intervento al menisco, con l’infortunio patito nella seconda gara contro la Norvegia, non giocò bene, ma benissimo; redendosi protagonista di una sontuosa performance, che nemmeno quel tiraccio dagli 11 metri scalfì.
Quella finale de 17 luglio del 1994, dunque, fu una grandissima occasione sprecata non dai giocatori che scesero in campo, ma dall’allenatore Arrigo Sacchi che volle fare troppo di testa sua, senza intuire che non aveva idee chiare.